27 Luglio 2018

Acción Romantica – “Ti seguirò pure in bagno”. Il capolavoro di Carlo

La rubrica di Stefano Mazzi: "Perché gli interisti sono gli ultimi dei romantici"

Questa è la storia di un uomo normale che ha vissuto una vita straordinaria. Lontana dai riflettori ma illuminata dalle stelle. È la storia di un gregario dimenticato, coperto dalla polvere della storia ma che comunque quella storia l’ha cambiata a suon di palle rubate e randelli sugli stinchi. Un mediano vecchio stampo. Di quelli che non ti fanno vendere le magliette ma ti fanno vincere le partite. Di quelli che non ti fanno respirare, che ti domandi perché proprio a te. Che hai fatto di male per essere marcato da uno così, dimenticando che quando e se si hanno simili attenzioni, altro non può essere che un onore. Uomini che non hanno appeal sulle fighette e i giornali non li cercan quasi mai, ma senza di loro in campo non vai molto lontano. È il classico ago di una bilancia sensibilissima, dove baratro e gloria viaggiano così vicini tra loro da non notare quasi dove inizia uno e finisce l’altro. Un centrocampista che correva per cinque centrali, anche per quelli a casa. Uno di quelli che vive e gioca nell’ombra, che suda per gli altri, che copre le spalle ai più tecnici, che senza il suo sacrificio non potrebbero dar sfogo al loro estro. Carlo Tagnin è stato uno della Grande Inter. Non certamente il più famoso, ma sicuramente il più importante. Era la diga sulla quale gli avversari sbattevano e dove gli uomini del “Mago” Herrera costruivano i loro successi.

Tagnin trasformò quella che doveva essere la sera delle streghe nella notte della gloria. Per una sera divenne l’ombra del mito, Alfredo Di Stefano, uno che all’epoca, il solo pronunciarlo ti faceva cedere le ginocchia. La notte del 27 maggio sul campo del Prater di Vienna, nella finale di Coppa Campioni contro il Real Madrid delle “leyendas”, il biondino italiano annientò quel campione che quel trofeo l’aveva alzato già cinque volte di fila, mentre l’Inter era una meteora del panorama calcistico europeo, e quella sera sembravano esserci tutti i presupposti affinché fosse la vittima sacrificale. Almeno sulla carta. Si perché in realtà il gruppo allenato da Helenio Herrera aveva ben altri progetti e motivazioni. Il catenaccio, oggi usato più come una bestemmia invece che come un complimento, effettuato dai “bauscia” era un’innovazione assoluta. Sopratutto come lo interpretava l’Inter: un mix micidiale di atletica e organizzazione maniacale di ogni minimo particolare. Ogni minimo ciuffo d’erba di ogni campo che gli uomini di Picchi calcavano era studiato alla perfezione. Herrera spiegava tutto ai suoi calciatori. L’ambiente che avrebbero trovato, l’avversario che avrebbero affrontato. I loro punti deboli. Quelli forti. I raccattapalle, nome per nome. I prezzi del bar e quelli dei bibitari. Quanto era grande il parcheggio fuori lo stadio. L’Inter cresce velocemente partita dopo partita e rispecchia alla perfezione il propio paese di origine: moderna ed in rapida espansione. Che non vuole fermarsi e pensa in grande.

La leggenda della Grande Inter ha inizio proprio quella sera al Prater, con quel 3-1 che sa tanto di passaggio di consegne. È la vittoria di un gruppo straordinario. Di un manipolo di eroi che di lì a poco avrebbero visto scolpiti per sempre i loro nomi nel mito con quella filastrocca leggendaria. Sarti, Burgnich, Facchetti… La vittoria di un gruppo straordinario. Una squadra stratosferica. Di uomini straordinari. Undici eroi. È la consacrazione di Sandro Mazzola, che apre e chiude l’incontro segnando una doppietta al Grande Real a soli 21 anni. È la vittoria di Corso e Suarez, che per una sera svestono i panni dei fuoriclasse e si mettono a rincorrere gli avversari come matti per tutto il campo, per sopperire all’inferiorità numerica che l’Inter aveva quella sera a centrocampo visto che giocava col libero, mente gli spagnoli no, ma che non misero da parte immensi, abbaglianti lampi di classe. È la conquista di Picchi, il capitano e ultimo baluardo da superare, di Burgnich e Guarneri, semplicemente perfetti, incollati dal primo minuto a Gento e Puskas. È la vittoria di Giacinto Facchetti, terzino gentile e d’attacco che nel calcio non s’era mai visto. Praticamente un attaccante aggiunto. È il tripudio di Sarti, decisivo nel secondo tempo quando il Real sembrava venir giù come la pioggia durante un’alluvione. È la rivincita di Milani, gregario di lusso che segna il gran gol che porta l’Inter sul 2-0. È, sopratutto è, la vittoria di Carlo Tagnin da Valle San Bartolomeo, Alessandria, che appena entrato in campo si incolla a Di Stefano come la carta igienica al buco del culo e non lo lascia praticamente mai. Il più umile dei guerrieri. Tagnin sa che è la partita della vita. La sua vita. Lui, che a 31 anni suonati, quando ormai sembrava tutto così tardi, ha avuto la grande chance di vestire la maglia nerazzurra su esplicita richiesta di Herrera. “Per vincere ho bisogno di uno così”. Tagnin sa che notti così passano una volta sola, ed ad alcuni neanche quella. Carlo lavora sodo. Sopperisce ad una tecnica relativamente scarsa con una dedizione al lavoro atletico e dei particolari unici al mondo. Il biondo diventa indispensabile nello scacchiere della Grande Inter, e la partita del Prater è il suo capolavoro assoluto. Quella sera Di Stefano avrà toccato sì e no otto palloni. Non l’ha mai vista. Mai toccata. Mai neanche avvicinata. Come cercava di accaparrarsi una palla, Tagnin era lì. A mordergli le caviglie e ringhiare sul quel ciuffo scomposto che usava come riporto. Come il madridista si voltava, lui era lá. I due camminavano fianco a fianco su quel campo austriaco come due ballerini della stessa coreografia.

Il gregario non mollava un centimetro. Un millimetro. Niente. Non lasciava respirare il campione, non più all’apice della sua carriera, come quel suo carico pieno di gloria e quasi curvo per colpa della sua immensità, ma sempre letale. Fu la notte del popolo che vince sulla nobiltà. È circa il quindicesimo del primo tempo, e Di Stefano non ne può già più. Non ha mai trovato un avversario del genere. Così asfissiante. Così malvagio. Così dannatamente bello e bravo nel fare bene il proprio mestiere. Quello per cui è pagato. Per cui Herrera l’ha voluto in maniera imprescindibile. È il ventesimo quando l’uomo vestito di bianco ripiega a centrocampo nel tentativo di andarsi a prendere una palla. Arriva fino alla sua area di rigore, convinto di avercela fatta. Di essersi finalmente tolto dalle palle quel biondo con la faccia scolpita con l’accetta che non lo fa respirare. Giocare. Ragionare. E invece no. Niente. Si gira, e anche quella volta, lui è lì. Che respira affannoso ma non molla. Di Stefano non ci può credere. Ha un gesto di stizza. Tiro un calcio all’aria che lo circonda. Si volta verso Tagnin e , grazie alle sue origini, in un italiano impeccabile urla “Ma vieni anche qui?”. Tagnin non fa una piega. Da buon uomo del nord non si scompone minimante, si avvicina all’orecchio del campione e, come la leggenda narra, gli sussurra dolcemente “Ti seguirò pure in bagno”. E così sarà. Una sorta di minaccia. Una specie di premonizione che porta a buon fine. Sul Prater non ci sarà centimetro di campo che il “blanco” non calpesterà con affianco il suo stalker. Di Stefano potesse si metterebbe a piangere. In quelle poche parole di Tagnin c’è la completa abnegazione che i ragazzi di Herrera avevano nei confronti del Mago. Sarebbero morti per lui, se solo glielo avesse chiesto. Quello che Helenio diceva, era legge. Bibbia. Vangelo. Comando imprescindibile. Una specie di incantesimo.

Come quella sera, quando Herrera aveva ordinato di non far respirare Di Stefano e così è stato. Non l’ha mai vista. Neanche una volta. Neanche per sbaglio. Neanche sotto la doccia oppure in bagno dove, mentre i suoi compagni erano fuori a festeggiare, sicuramente Carlo Tagnin aveva deciso di seguirlo come ordinato dal Mago.

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