27 Aprile 2015

EDITORIALE – Barlumi di anima nerazzurra

Un pugno scosso con decisione, un sorriso e un sospiro di sollievo nel mentre di una camminata veloce e nervosa verso il posto che occupa di solito in panchina: dopo la rete decisiva di Icardi, Roberto Mancini è l’immagine della liberazione – la parola non è casuale, vista la data in cui si gioca – da tutte le angosce, le paure e i fantasmi di chi si stava già preparando per affrontare i minuti di recupero nella speranza di non perdere un match dalla dinamica altalenante e il post-gara potenzialmente bollente che ne sarebbe scaturito. Ma se è vero che la fortuna aiuta gli audaci e se è vero anche che mai come stavolta il Roberto di Jesi audace lo è stato fin troppo, allora non dobbiamo meravigliarci se per una volta le cose sono andate nel verso più favorevole. Ma il 2-1 finale, che porta le firme di Hernanes e del già citato bomber argentino, non assolve solo alla funzione di avvicinare i nerazzurri ad una zona Europa League ancora troppo lontana non tanto per i quattro punti, quanto per le quattro squadre che precedono la truppa guidata da capitan Ranocchia; è invece una fucina di spunti, di reminiscenze di nuove aspettative che si aprono in questa primavera che sembra non voler arrivare mai, ma che oggi appare un po’ più vicina.

La rondine passata sabato sera a San Siro non cancella il passato né tutte le sue brutte abitudini: innanzitutto vogliamo che si ponga l’accento sulle solite due facce – il cui ordine di presentazione cambia da partita a partita – che l’Inter è solita mostrare durante i suoi match. Ad un primo tempo di grande abnegazione e concentrazione per tutti, con Ranocchia e Vidic sempre in anticipo alla stregua di una coppia di centrali degna e collaudata e con il nuovo bambino, Gnoukouri, assoluto padrone della sua zolla, è seguita una ripresa in apnea, come spesso accade di questi tempi. Questa volta, però, la squadra, seppur allungata e sulle gambe, non è sprofondata: non è mai stata persa la bussola e spiragli di luce e di cielo sono rimasti alla portata dell’undici nerazzurro. Insomma, feriti e con poche forze, ma contro un avversario a sua volta quasi sfinito, per la prima volta dopo due anni e mezzo l’Inter è riuscita a impostare la seconda parte di una gara sull’uno contro uno: Gervinho e Juan Jesus, Ibarbo e Vidic, Icardi e Manolas o Yanga-Mbiwa, Palacio e De Rossi, Hernanes e Pjanic, Guarin e Nainggolan sono i nomi dei duellanti che potevano decidere l’esito del match. Un film già visto, fatte le dovute proporzioni di pellicola usata, in una notte d’autunno del 2012 allo JuventusStadium. Ma c’è di più.

Si fa fatica a ricordare un Inter con in campo contemporaneamente cinque giocatori prettamente offensivi contro una big: a Icardi, Palacio ed Hernanes si sono infatti aggiunti Podolski e Shaqiri in luogo di Gnoukouri e Guarin, oltre a Kovacic per Brozovic. A nostro avviso è stato il segnale più importante della serata: soliti, nelle gestioni precedenti, alle prestazioni agoniche e sempre incentrate al non subire un gol poi puntualmente irrecuperabile, abituati a non vedere in campo più di due uomini d’attacco nelle posizioni giuste per far male (Hernanes è tornato trequartista solo nelle ultime partite dopo un anno e mezzo di nerazzurro), rassegnati a quella prudenza che impone di non tirare troppo la corda per evitare che si spezzi nella piena coscienza che ciò non vuol dire che non si spezzerà, Mancini ha gettato nella mischia tutti gli attaccanti che poteva, pur di giocarsela in una gara per la quale, apparentemente, non c’era nulla in palio oltre ai tre punti. La scelta dell’ex tecnico del City, che probabilmente non trova precedenti in nerazzurro, è stata l’ultimo strattone a una compagine che, speriamo, non aspettava altro. Un film già visto, con attori e uno scenario totalmente diversi e più prestigiosi, in una notte d’autunno del 2009 nel freddo di Kiev. Ma c’è di più.

Evidentemente, prima di mandarlo in campo, il Mancio deve aver metaforicamente strattonato con forza anche l’unico giocatore che la verve sembra averla lasciata nella cameretta della sua casa in Croazia: Kovacic non giocherà mai con l’agonismo del miglior Gattuso, ma il pubblico di San Siro ha esultato come un gol al deciso intervento in scivolata da quasi ultimo uomo su Iturbe, prima di esultare per il gol vero, quello di Icardi, nato proprio da tale recupero. Il giovane Mateo non è uno di quelli a cui è necessario suggerire il modo in cui toccare il pallone o il giocatore smarcato a cui cedere la sfera, perché dal punto di vista tecnico è irreprensibile; crescerà tatticamente col passare del tempo, ma bisogna pretendere fin da subito che lasci in campo la pelle. Non ci piace esaltarci troppo, ma l’impressione che abbiamo avuto è che per la prima volta il numero 10 nerazzurro abbia giocato con il trasporto che un qualsiasi 20enne avrebbe nel calcare l’erba di un campo di calcio così importante.

Non è stata la prima, ma merita una nota anche l’ottima prestazione di Gnoukouri. L’ivoriano ha solo 18 anni ma una buona personalità e merita di crescere senza sentire il peso dei tanti fenomeni, tra cui Vieira, Yaya Tourè e Pogba, a cui viene ormai quotidianamente accostato dal momento dell’esordio a Verona. Siamo convinti che sia sufficiente la pressione che mette un derby o un Inter-Roma per capire che il calcio è cosa seria e che la maglia va onorata per far felice il pubblico, per sentirsi a posto con se stessi e per poter aspirare a diventare un termine di paragone per qualcuno un giorno lontano. Che cresca bene Assane, che cresca bene tutta l’Inter, con coraggio, fame e intraprendenza. Per qualche giorno basterà l’aver rivisto anche solo pochi barlumi di anima nerazzurra.

di Gianluigi Valente