4 Novembre 2016

EDITORIALE – Io sono Interista

Dalla spilla simbolo dell'inizio del ciclo leggendario, alla necessità di riscoprirne il significato. Il successo di una società che non è più in grado di comunicare, con lo spettro di un padre come Moratti che non riesce a lasciar andare la sua creatura.

Sembra sbiadito il tempo in cui, giovane pieno di ardore sportivo, entravo in un’edicola per acquistare l’allora rivista ufficiale dell’Inter. Era l’estate di Calciopoli, della quarta stella mondiale con Materazzi a Berlino. Della purezza e dell’orgoglio di essere tifosi dell’allora squadra di Massimo Moratti e, anche di più, moralmente di Giacinto Facchetti. Lo scudetto di cartone per molti, l’inizio di un ciclo leggendario per noi. Erano i tempi di Ibra e Vieira, di Maicon e Julio Cesar, di Cambiasso e di uno Javier Zanetti con una fascia che bastava a far capire il volto di una società. In campo ci andavano loro, in panchina un Roberto Mancini vincente e assistito da Beppe Baresi e Lele Oriali, un dirigente che parlava il linguaggio del campo. Quei tempi sono finiti. E non è questo il dramma.

LA RABBIA E L’ORGOGLIO – Quanto hanno fatto bene quegli anni. Ma nello stesso tempo sono riusciti ad essere l’inizio della fine. Ad un popolo di tifosi disabituato a vincere la scorpacciata di successi ha avuto l’effetto della trasformazione in tifosi snob. Sempre accusati di essere vincenti poco simpatici, i nerazzurri hanno conquistato l’Italia, l’Europa, il Mondo. E dal tetto del globo i tifosi hanno iniziato a dispensare verità. L’orgoglio di quella squadra capace di scrivere la storia del calcio italiano ha nascosto il veloce procedere verso l’oblio societario. Un presidente tifoso come Massimo Moratti ha coperto d’oro tutti i suoi eroi. Li ha drogati di denaro che la società non disponeva. Non quella che doveva iniziare ad essere pensata con i canoni di modernità imposti dalla Uefa e da una crisi economica mondiale alle porte. Era il 2006 e abbiamo iniziato a vincere, laddove gli altri hanno cominciato leccarsi le ferite. <Io sono Interista> bastava a vincere una discussione perché portava con sé il peso dei valori e dei trofei macinati a fine stagione. <Zeru Tituli> fu il naturale successore. E intanto i bilanci colavano a picco.

SOCIETÀ QUESTA SCONOSCIUTA – Vinceva sul campo l’Inter di Mourinho e lo faceva proprio perché aveva il suo uomo forte. Ovunque c’è un vuoto di potere lo Special One si inserisce alla perfezione e mostra il meglio di sé. Ma quando quella scatola che sembrava coperta di oro e diamanti si è rotta si è scoperchiato un vaso che quello di Pandora a confronto è una favola per bambini. In un’intervista risalente al periodo in cui Moratti era dibattuto nell’animo all’idea di affidare ad altri la sua Inter, l’allora presidente lo aveva detto in modo molto chiaro. <Si va verso un futuro dove il mercato chiede una gestione differente. Ed è giusto che mi faccia da parte>. Un passo indietro, che si è trasformato in un passo di lato. Come un padre apprensivo che proprio non ci riesce a concedere la mano della sua creatura.

PROGETTI E ANNI 0 – Ecco Thohir. Il ciclo è finito e lo sanno tutti. Ogni anno l’obiettivo si spostava un po’ più sotto. Il capro espiatorio era il Fair Play Finanziario, un mostro che castigava chi con passione voleva spendere e spandere come nemmeno a Pes. Ernesto Paolillo è stato pernacchiato da tutti coloro che lo hanno definito una Cassandra quando in realtà era più un Zarathustra in un contesto dove nessuno parlava la sua lingua. Thohir è arrivato con la forza del suo nome in oriente. Tutti hanno guardato i suoi capitali e hanno subito fatto l’equazione con quanto vissuto con Moratti presidente. Ma Thohir ha preso la mano della figlia del patron e, al primo appuntamento, dentro la scatoletta con l’anello di matrimonio, c’era un foglietto con i diagrammi, le spese e i ricavi necessari per metter su famiglia ed essere felici. Felici ma senza amore. Il più grande affronto che si potesse fare per chi ha fatto dell’orgoglio, della purezza, dei sentimenti e dell’estraneità dei giochi di palazzo il suo dna. Meglio bistrattati ma limpidi, che fare “come fan tutti”.
Il campo non ha portato più vittorie, ma nel frattempo in società i trofei si alzavano a due mani. Accordi internazionali, sponsor, nuovi soci, prestiti bancari che impedissero alla società di fallire e una parità di bilancio che ha provocato in Paolillo una possibile emozione pari ai sogni erotici della fine del primo appuntamento descritto sopra. Senza dimenticare infuocati comunicati in grado di rispondere a ogni attacco e il licenziamento di chiunque osasse far uscire informazioni che dovevano rimanere all’interno dell’ambiente.

L’UOMO DEL PRESIDENTE – Torna Mancini, torna la possibilità di investire, con lungimiranza, con il gioco dei vasi comunicanti. È il periodo di Piero Ausilio e della sua magistrale capacità di fare un mercato impossibile a tutti. Ma il Mancio bis è un fallimento. Vuole fare il manager all’inglese il ragazzo di Jesi, Thohir gli dà fiducia e lui cambia più giocatori che mutande. Poi inizia a fare i capricci e dall’altra parte trova un muro. Javier Zanetti nel frattempo è vicepresidente, la sua fascia è oggetto di faide all’interno di una tifoseria che non conosce più il significato dell’interismo. Fa l’uomo spogliatoio, ma non riesce ancora ad essere un dirigente capace di dire no ai suoi ex compagni.
In tutto questo arriva Frank de Boer, l’uomo del presidente.
Non potendo vedere Nicola Ventola in campo, Thohir ha puntato tutto sull’olandese padre di un calcio che parla il linguaggio del futuro. Valorizzazione dei giovani, capacità di metterci la faccia, e indipendenza sufficiente dal non necessitare un presidente presente. Ma a Thohir la spilla Io Sono Interista non è mai stata data. L’Inter non è una società come le altre. L’Inter è capace di distruggere e vedere come un veleno anche la miglior medicina possibile. Con l’arrivo di Suning e con il fallimento del Fair Play Finanziario ormai alle porte, i cordoni delle borse si sono riaperti e i giocatori si sono presentati con il piattino pronti a riscuotere la promessa di un rinnovo corposo.

IL PESO DELLA FASCIA – L’attuale capitano nerazzurro è uno dei volti più forti non solo in campo ma anche come uomo marketing. Il suo rinnovo, ruotato intorno ai diritti d’immagine, ha portato a un forte confronto che ha escluso il resto dello spogliatoio. Una bomba di portata enorme. Da una parte un allenatore che, di fretta, ha cercato di imporre il suo gioco senza coinvolgere i senatori. Dall’altra gli stessi senatori si sono visti superare da un argentino di 23 anni con una fascia al braccio da loro mai accettata.
Due fuochi e uno sfogo: Zanetti.
Nessuno come lui avrebbe capito i loro fastidi. Javier non ha mai confermato de Boer, ma non ha nemmeno mai fatto in modo che gli umori si placassero. In difficoltà è andato da suo “padre”: Moratti. E il responso fu l’esonero dell’allenatore.

L’EPILOGO – Ed eccoci ai giorni nostri. Un excursus che è necessario per poter ragionare in modo quanto più consapevole su quello che stiamo vivendo. Mentre gli interisti allo stadio e sui social si sentono in dovere, nel nome di un Triplete ormai troppo lontano per essere credibile, di imporre la propria opinione come legge, Massimo Moratti ha il cuore troppo ferito per restare a guardare, pronto a rimangiarsi quelle parole piene di amore sincero, <è meglio che mi faccia da parte>. Intanto de Boer è partito, lasciando dietro di sé quello che fino ad oggi ha coperto con la sua faccia tanto presa di mira. Una squadra senza più alibi che aspetta il suo condottiero. Nel frattempo, come era pronosticabile, in Europa resta un lumicino flebile come la dignità di una società che si ritrova a fare colloqui di lavoro come una vera azienda, senza però avere ben chiaro il ruolo di chi sta dalla parte dei selezionatori. In tutto questo Leonardo ha, in soli 3 minuti, dato una ricetta che fa scendere quasi una lacrimuccia per la lucidità, competenza e schiettezza con cui è stata pronunciata. E non credo sia un caso che sia con lui che sia arrivato l’ultimo trofeo. In tutto questo, apro la scatola, cerco con la mano e mi pungo. Fa male. Fa abbastanza male, ma emoziona.

Perchè su quella spilla c’è scritto Io Sono Interista.

E solo riscoprendo il significato di queste parole si potrà tornare a vincere intorno al campo prima che sul manto verde.