9 Dicembre 2017

La Beneamata e la Vecchia Signora: racconto sulla superiorità della tradizione rispetto alla bassezza delle “fogne”

Oltre le polemiche di rito e le subdole sferzate, c’è una contesa che celebra un costume ed infiamma gli animi da più di un secolo

Le gesta diventano epica laddove si tramutino in imprese, e le narrazioni traggono nuovo vigore da esse, perché la successione delle generazioni sia leggenda da tramandare. La storia si officia sull’altare degli eventi, e questi ultimi incorniciano il passato, a seconda della validità del percorso compiuto. Nella sua forma più aneddotica e letteraria, il Calcio è la magistrale trasposizione del mito: ascesa e declino sono collegate dal filo rosso della casualità, in cui il minimo cedimento rischia di precludere l’accesso all’Olimpo e di lasciare precipitare rovinosamente nell’oblio.

Gli itinerari di Inter e Juventus rasentano perfettamente quanto sin qui esposto: entrambe hanno redatto indelebili manoscritti dell’almanacco sportivo mondiale, per mezzo di vittorie di estrema portata, e reciprocamente hanno avuto un saggio della crudeltà dei periodi tetri. Eppure, per quanto complementari, nerazzurri e bianconeri divergono marcatamente in un aspetto: mentre i primi ripudiano ogni scoria di sindrome da accerchiamento, i secondi la pongono in cima alla gerarchia dei valori.

È così che il canale televisivo della società piemontese si macchia di connivenza etico-deontologica per non aver opportunamente ripudiato da qualsiasi palinsesto della propria emittente e non rivedere in quel pensiero lo spirito della trasmissione, un opinionista che auspicava agli interisti tutti un celere ritorno nel putridume di un pozzo nero. E ciò non perché Spalletti e Icardi abbiano intimorito gli juventini – malgrado l’acume tattico dell’allenatore e il delizioso periodo dell’argentino -, quanto per la incessante ossessione di predicare una netta prevalenza sull’Italia pallonara, e soprattutto sull’Inter.

Forse, sarebbe stato di gran lunga meglio che le “[…] fogne” di cui parlava Sandro Pellò potessero venire depurate dal ricordo di Julio Ricardo Cruz e di Juan Sebastian Veron (per citarne alcuni), che a Torino qualche patema l’hanno seminato e qualche imprecazione contro attratta. Oppure, che auspicasse ad una classica intramontabile del campionato nostrano di rispettare le attese che attorno ad essa si stanno profilando, giusto per tenere fede al blasone curricolare di un incrocio di scudetti, di coppe, di titoli, con pochi eguali al Mondo.

Perché in palio non c’è la limitatezza di un appagamento circoscritto a 180 minuti stagionali, ma la supremazia di un’identità socioculturale su di un’altra, l’opposizione ad un dominio calcistico, politico e mediatico, la rivalsa sulla arroganza dell’egemonia e sugli abusi di presunzione. In pratica, il Derby d’Italia è l’ostentazione della supponenza di chi ha sempre spadroneggiato indisturbato e l’apoteosi dell’orgoglio di chi ha sempre strenuamente resistito: l’Internazionale contro una mentalità – contrabbandata per stile – torbida quanto le “[…] fogne” oramai tanto inflazionate. Senza scomodare gli inciampi in Europa, 7 di cui 5 consecutivi (!); bisognerebbe proprio chiederlo a Pellò: ma il Triplete dov’è?

di Alex Angelo D’Addio

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