9 Marzo 2019

L’Intertinente – Bastassero 111 anni per spiegare l’Inter…

Una rubrica per rafforzare un concetto: l’impertinenza di essere nerazzurri

Spiccare per originalità durante una ricorrenza è tanto ostico quanto pretenzioso, ma ripetersi con cadenza annuale è dovuto; quindi, il 9 marzo è cantico ai “[…] colori del cielo e della notte“, da rinnovare ed officiare costantemente, nella purezza dell’arricchimento emotivo. Infatti, l’Inter si esprime in un enigmatico equilibrio fra atto di amore e mistero di fede, perché l’apice del sentimento è l’enfasi della irragionevolezza: se c’è la Beneamata di mezzo, l’incondizionata adorazione prescinde dalle vittorie, l’immancabile sostegno è sganciato dai deludenti risultati, e l’indifferenza resta altissima dinanzi a rivali storici ed avversari recenti che dominano e ben figurano in Italia e in Europa.

Al cospetto di cadute e declini, dunque, qualsiasi celebrazione stonerebbe, dal momento che il rallegramento è la conseguenza della gioia, che stenta ad accendersi nel mentre di una stagione spoglia di obiettivi già da gennaio, in un gruppo dedito alle inutili ed instabilizzanti faide intestine e non alla redenzione di un’annata sciagurata, e nella confusione generalizzata che allontana dall’obbligo morale e storico di osannare l’Inter. Tuttavia, benché sfugga, il senso della cerimonia del Nero e dell’Azzurro è vivo e vivace come non mai.

Lo è in quanto la bellezza di dedicarsi all’Internazionale sta nella necessità di scoprirla ed assaporarla continuamente, al di là di qualsiasi circostanza sinistra ed episodio avverso. Altrimenti, come si spiegherebbero l’Alaves della primavera del 2001 – che espugna San Siro ed estromette Marco Tardelli e i suoi da un Ottavo di Coppa UEFA – e il calore nel ritiro dell’estate immediatamente successiva, per battezzare e benedire il nuovo corso di Héctor Cuper? Oppure le 10 reti subite in due Derby consecutivi fra il ferale 0-6 del maggio 2001 e il 2-4 di qualche mese più tardi, e il sussulto stratosferico della Curva Nord che aiuta il ginocchio di Christian Vieri – all’anagrafe, Vieri Iscariota – a spingere il pallone in rete e consacrare di Neroblu una Stracittadina dopo 3 anni?

O la fustigazione e il disagio del 5 maggio 2002 – data che si specchia nella metamorfosi di caroselli annunciati in sconcerti indomabili -, e un Meazza gremito per la prima Coppa Italia del ciclo di Roberto Mancini? E ancora lo scempio di Villarreal del 2006, quando apparire nell’alveo delle prime 4 squadre continentali pareva una formalità, infranta da un colpo di testa di Arruabarrena (?!), e lo tsunami di entusiasmo per la Supercoppa Italiana agguantata scalando la cima di una briosissima Roma nell’agosto seguente?

Rispondere “Mourinho!“, “Madrid!“, e “Triplete!“, non conta; piuttosto, l’Inter è un percorso di maturità, di crescita, di perseveranza, di tolleranza: è la novella di un calvario che può evolversi in un tripudio, e di un successo che si tramuta in disfatta, nella più totale ed ermetica irrazionalità. Per l’appunto, l’Inter è un condensatore di illogica e follia, finezza e disgrazia, che catalizza tutta la sua propulsione nell’esondazione di affetto che ogni domenica la trascina alla conferma dell’onore. Da Roberto Vecchioni a Beppe Severgnini, da Enrico Mentana a Michele Serra, in parecchi si sono spesi nell’esegesi dell’Ambrosiana, perciò accodarsi ed assortire sarebbero fastidiosamente ed arrogantemente superflui; semmai, si potrebbe semplificare: l’Inter è una virtù iper-secolare, che da fuori sembra complessa ed inaccettabile da accogliere, ma che crea una fantastica ed educativa dipendenza dalla quale diventa difficile e deleterio distanziarsi. Bastassero 111 anni per definirla, questa infatuazione…