27 Settembre 2018

L’Intertinente – L’importanza di chiamarsi D’Ambrosio: racconto di un fuoriclasse del gregariato

Una rubrica per rafforzare un concetto: l’impertinenza di essere nerazzurri

Nella vita di un comprimario, la principale difficoltà è quella di equilibrare le proprie gesta, oscillando costantemente tra un preventivato scivolone e un’inaspettata prodezza: sostanzialmente, essere in grado di attutire l’ira conseguente ad inevitabili e prevedibili limiti, e di non cedere alle sirene dell’entusiasmo in occasione di uscite memorabili.

Ciò che contraddistingue un subalterno di spessore da una meteora di passaggio, è la capacità di domare i mugugni e i disappunti senza perdere la bussola, e saperli mutare in acclamazioni e plausi, mantenendo la compostezza della sobrietà. Perché il confine tra un gratuito schernire e un inappropriato mitizzare è letteralmente sottile, e il rischio di passare da impresentabile ad icona e di poltrire sull’onda più o meno lunga della notorietà è subdolo ed incalzante.

Per non cadere nella trappola del successo ad orologeria, l’esempio migliore è Danilo D’Ambrosio, quale perfetta incarnazione della figura dell’anti-eroe calcistico: non estasiante, né appariscente, men che meno auto-celebrativo, ma solo infinitamente umile e tremendamente concreto quando la situazione lo richiede. Al difensore campano può essere imputato di tutto – non esaltanti doti tecniche e lievissima propensione alla spinta offensiva -, fuorché peccare di inconsistente personalità, che in questi anni di Inter ha dimostrato di possedere e di saper sfoderare nel momento più adatto.

Certamente D’Ambrosio non intercetterà applausi, non allieterà gli spalti di San Siro con finezze balistiche, e nemmeno abbaglierà con l’eleganza del talento, però è l’indispensabile prototipo di un soldato d’assalto, che conosce le sue criticità e tenta di contenerne i danni, a sostegno e tutela di una causa. Nella fattispecie, quella nerazzurra, alla quale il terzino ex Torino sta donando ogni singola molecola di se stesso da quasi 5 anni a questa parte, ripudiando gli eccessi e garantendo abnegazione e rispetto.

La sua interminabile predisposizione all’adattamento – talvolta sacrificante, considerando che venga spesso impiegato in svariate zone del rettangolo verde, a fronte della sua versatilità tattica – e la sua indole da alfiere della spiritualità interista, compongono il ritratto di un giocatore che magari non spiccherà per classe, ma che sovente commuove per applicazione e passione. Sebbene bistrattato e denigrato, il funambolo di Castellammare di Stabia risponde costantemente presente alle esigenze di una Beneamata che ha bisogno anche di factotum del mestiere, oltre che di geni del pallone. L’interismo è anche un numero 33.

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