26 Gennaio 2016

FOCUS – José Mourinho, l’Interista

Guardi il calendario e leggi 2016. Cosa ti comunica quel numero a quattro cifre? Niente, è ancora un estraneo, al massimo un vago conoscente, troppo acerbo per essere associato a delle immagini nitide. Lo esamini, lo scomponi, lo analizzi e non trovi niente. Forse cercando bene riesci a intravedere la tua controfigura contorta sul letto a smaltire […]
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Guardi il calendario e leggi 2016. Cosa ti comunica quel numero a quattro cifre? Niente, è ancora un estraneo, al massimo un vago conoscente, troppo acerbo per essere associato a delle immagini nitide. Lo esamini, lo scomponi, lo analizzi e non trovi niente. Forse cercando bene riesci a intravedere la tua controfigura contorta sul letto a smaltire chissà quanti bicchieri di aspettative per il nuovo anno. Tu che dormi sul letto mentre il cielo di una nuova mattina è biancastro e si rifiuta di offrire qualcosa di più a te e a tutti gli altri che l’1 gennaio hanno da recuperare svariate ore di sonno in arretrato. Cos’altro c’è? Qualche nuova canzone dentro la playlist, destinata a rimanere o a sparire nel giro di poco. Ma questo non si sa, come non si sa nulla di ciò che sta per arrivare. Un mesetto scarso non è sufficiente per pensare qualcosa sul nuovo anno, e rimani così, con gli occhi puntati su quel 2016 che regna sul tuo calendario, come un nuovo sovrano che ancora non hai inquadrato bene. Se sei Interista e quel numero lo fissi per diversi secondi, la tua mente si poserà con leggerezza e malinconia sugli anni che sono passati dal momento in cui tu e la tua passione vi siete congiunti nuovamente, in cui lei ti ha preso per il cuore e ti ha strattonato ben oltre le nuvole, mentre il cuore di batteva a mille. Sei anni, sono passati sei anni da quel 2010 che inconsciamente hai deciso di utilizzare come Anno Zero, come implicito punto di riferimento, qualunque altra cosa tu stessi facendo nel frattempo, perchè in quei giorni si consumavano i momenti più belli che potessi immaginare. Distogli lo sguardo dal 2016 e ti concentri sul giorno. 26 gennaio. Quando devi rendere grazie all’uomo che ha reso possibile tutto.

José Mourinho nasce a Setubal il 26 gennaio 1963, figlio di un calciatore e di un’insegnante. Ha incrociato e stravolto la strada dell’Inter nel 2008, quando il presidente Moratti ha deciso di portare a Milano questo antipatico quanto vincente allenatore, che ha vinto di tutto e di più tra Portogallo e Inghilterra. Il cuore è abituato a rubarlo in modo strano, diversamente da tanti altri tecnici: in molti si guadagnano sul campo l’amore dei nuovi tifosi, lui lo fa tracciando un solco enorme tra la squadra che allena e il resto del mondo, come se la sua squadra, con i suoi tifosi, i suoi giocatori e lui al comando, fosse accerchiata da tutto ciò che c’è fuori. Alla prima conferenza stampa della sua vita davanti a un pubblico di italiani, che si aspettano dei concetti resi sterili dalla traduzione simultanea, lui spiazza tutti: “Non sono un pirla”. A Milano, quando tutti sanno che ti fai chiamare “The Special One“.  Ecco, ora ne abbiamo la prova.

La comunicazione di Mou è impattante, magnetica per quanto scostante e l’Interista non resiste: il tifoso nerazzurro è abituato a vivere la propria nobiltà calcistica in condizione di outisder, con meno trofei di quanto ci si aspetti, di quanto siano forti gli uomini che scendono in campo o di quanto siano grosse le ingiustizie che sente di subire. Le difficoltà, le beffe e i bocconi amari sono tanti per l’Interista e l’unico conforto in questa spassionata dichiarazione d’amore verso le emozioni estreme che è il tifo per il Biscione è quello dei compagni, degli altri Interisti che soffrono con lui. Mou traccia il confine tra il Mondo Inter, con tutte le sue tribolazioni emotive, e tutto ciò che ne è fuori: si erge a comandante di questo popolo errante ed estrae la spada non appena qualche elemento va a ledere la sfera che lo circonda. Se gli arbitri sfavoriscono l’Inter si indigna, grida al complotto, sposta l’attenzione dal campo e la focalizza sul nemico, sempre fuori dal Mondo Inter. Non importa se piovono multe, come quella volta in cui ha espresso il proprio disappunto per una doppia espulsione contro la Sampdoria mimando il gesto delle manette. Se i giornalisti lo criticano e criticano la sua squadra, lui insorge e inneggia alla “prostituzione intellettuale”, catalizza ancora una volta il disappunto emotivo dei suoi giocatori e dei suoi tifosi sull’obiettivo esterno, che in questo caso è la stampa. Nel frattempo lavora in campo: meticoloso, ossessivo, martellante e geniale, questo è Mourinho lontano dal microfono, che disegna la propria Inter, la scolpisce a somiglianza delle sue idee e prepara il momento in cui tutto sarebbe cambiato per sempre.

Il primo anno vince lo Scudetto all’ultimo respiro con una grande mano da Zlatan Ibrahimovic, che fa capitolo a sè, come sempre, ma il capolavoro è la stagione 2009-10. L’Inter della rivalsa sull’ordine universale delle cose, un concentrato esplosivo di emozioni, di infarti e gioie che da solo vale il prezzo di una vita passata a veder vincere gli altri. Quella stagione scorre con un respiro epico, sapientemente ordito fin da quando Shevchenko stava per rovinare tutto sul nascere anche con una maglia diversa da quella rossonera. La Dinamo Kiev e le sue insidie, il girone di Champions League strappato con i denti grazie a una punizione al tritolo di Balotelli contro il Rubin Kazan, i sospiri di sollievo e l’attesa impossibile. Attesa per un ottavo di finale contro il Chelsea, sbranato mentre i tifosi si guardano in preda all’euforia. Essere Interisti.

Non è una squadra per chi ha problemi cardiaci, tecnicamente non lo è nemmeno per chi è sano, perchè a diventare cardiopatici non ci vuole niente, in queste condizioni. La massima espressione di ciò che è stato Mourinho all’Inter è un lungometraggio di 180 minuti girato tra Milano e Barcellona, uno di quei film sadici nei confronti delle coronarie degli spettatori: la semifinale contro il Barça di Pep Guardiola, una delle squadre più forti della storia del calcio.

“Lo sapevamo” hai detto dopo che Julio Cesar raccoglie la prima boccia della partita dalla propria rete, gentile concessione di Pedro, in una serata in cui i ballerini catalani vogliono divertire e divertirsi anche sotto la pressione della Scala. Illusioni? Poche. Eppure l’Inter non prende l’imbarcata, rimane lì e se la gioca, trova il gol con Sneijder, poi con Maicon, poi con Milito. E poi? Poi tutti con la faccia sotto l’acqua gelida, perchè non può non essere un sogno, l’Inter ha battuto 3-1 il Barça. Al Camp Nou il copione è lo stesso, sono troppo forti per sperare di non prendere la stessa imbarcata che ci si aspettava all’andata, ma quella partita è la più agonica della storia recente del club e si rimane lì, friggendo in poltrona, dimenandosi a ogni principio di infarto che gli splendidi padroni di casa procurano ogni qual volta si presentano dalle parti di Samuel e Lucio. Ma Mourinho non ci sta, compatta tutti e schiera un blocco compatto davanti al suo portiere. La pelle degli Interisti costa cara. Busquets riesce a far espellere Thiago Motta, il castello degli ospiti potrebbe crollare da un momento all’altro anche solo per un soffio di Leo Messi, se non ci fosse una forza disumana a spingere su ogni pallone gli uomini in maglia bianca, che anche in dieci restano in piedi. Nel secondo tempo Piquè segna, la poltrona inizia a scottare e il cuore prende l’ascensore verso la gola: la tensione, il ritmo cardiaco galoppante, la testa che si rifiuta di pensare e si limita sostenere il peso sovrumano di questo momento. Mourinho in prima linea, a soffrire con noi e con loro. Il colpo di scena finale, il gol annullato a Bojan, toglie dieci anni di vita a tutti, ma quando l’arbitro fischia la fine, forse ci sentiamo finalmente depositari di una grande verità dell’essere Interisti: siamo fatti per soffrire. E Mourinho lo sapeva, era lì a festeggiare tra gli idranti aperti del Camp Nou come se fosse sempre stato nerazzurro, come se fosse l’Interista davanti al quale hai pianto in quel terribile 5 maggio. E questa era la sua forza. Dopo quella notte unica, non resta che tagliare il traguardo al Bernabeu contro il Bayern Monaco e festeggiare il Triplete.

La stagione più bella della storia dell’Inter non è fatta per avere un seguito: José Mourinho abbandona il Bernabeu a bordo di un’auto mandata da Florentino Perez, lasciando ai suoi tifosi gli ultimi fotogrammi di quella notte come dono d’addio. Le lacrime e la commozione che piegano il suo volto, la Coppa che splende più delle stelle e il color carta da zucchero della sua camicia. Pochi nitidi dettagli in un mare di brividi. Mou rimarrà sempre Interista, perchè in fondo quel magico 2010 non ha cambiato la vita solo ai suoi tifosi, ma l’ha cambiata un po’ anche a lui. Così nel giorno del suo cinquantatreesimo compleanno, il regalo più grande che possiamo fargli è quello di ricordarlo in questo modo, come uno di noi.