11 Gennaio 2016

EDITORIALE – Il culo dell’Inter

Ammettiamolo, c’eravamo anche abituati. Culo di qua, culo di là: il culo nell’Inter era ovunque, tranne dove deve stare normalmente (cioè tra la schiena e le gambe). Era in difesa, perché Murillo e Miranda non potevano assolutamente essere abbastanza bravi da reggere tutte quelle partite senza prendere gol senza l’aiuto della dea bendata; era a […]
allenamento verona-inter

Ammettiamolo, c’eravamo anche abituati. Culo di qua, culo di là: il culo nell’Inter era ovunque, tranne dove deve stare normalmente (cioè tra la schiena e le gambe). Era in difesa, perché Murillo e Miranda non potevano assolutamente essere abbastanza bravi da reggere tutte quelle partite senza prendere gol senza l’aiuto della dea bendata; era a centrocampo perché, nonostante la qualità non abbondi in mezzo, il pallone agli attaccanti arriva comunque; era davanti perché gli attaccanti segnavano lo stesso sebbene la squadra praticasse un «gioco orrendo»; era addirittura in porta perché Handanović una stagione così non l’aveva mai fatta. Eppure c’eravamo abituati. E un po’ ci piaceva pure, perché significava implicitamente stare davanti a tutti.

Magicamente, adesso, non se ne parla più dal minuto 93 della partita di ieri, quando Berardi ha messo il pallone alle spalle del portiere dell’Inter. Anzi, la cosa è stata ribaltata con fini umoristici (e, in qualche caso, le battute fanno anche davvero ridere).

Il punto, però, sta nel capire che la polemica relativa alla fortuna non ha più ragione d’essere al di là del fatto che l’Inter abbia perso due delle ultime tre partite: quando una squadra si trova dopo un girone intero a essere seconda a due punti dalla capolista, parlare di “culo” non ha più alcun senso. Sia chiaro, quando una compagine calcistica fa bene c’è sempre una punta di buona sorte e senza il fattore C, innegabilmente un potente alleato, molto spesso non si riesce a vincere. Lo dice la storia dello sport, lo dice la natura umana. Inoltre è logico che nello sfottò tra tifosi ci si aggrappi a qualunque cosa e la sorte favorevole che ha accompagnato il Biscione può tranquillamente essere ancora un argomento ricorrente. Quel che è inaccettabile è che ci sia ancora chi lo dice credendoci seriamente.

Perché la fortuna si può aiutare, ribaltando il proverbio, essendo audaci. La saggezza popolare spiega benissimo come il pizzico decisivo di fato benigno può essere incanalato apparecchiandogli opportunamente la tavola ed è certamente qui che stanno i meriti dell’Inter: non subendo gol quasi mai è matematico che te ne possa bastare uno solo per vincere, magari fortunoso (perché no). Mancini è scientemente partito nella costruzione della squadra da una solidità difensiva che mancava ormai dall’anno del Triplete (sia Benítez sia Leonardo hanno vinto quel che hanno vinto segnando un gol in più, non subendone uno in meno), aggiungendoci in prima battuta solo tanto spirito di sacrificio, molta corsa e quel pizzico di imprevedibilità garantito dai pochi creativi presenti in rosa – Jovetić su tutti, specialmente all’inizio.

Poi i meccanismi di gioco hanno iniziato a scorrere più fluidi, la manovra è rimasta macchinosa e poco appagante ma spesso la convinzione con cui i nerazzurri scendevano in campo è stata palpabile. I giocatori hanno sostanzialmente imparato a fidarsi dei propri mezzi e a interpretare più coraggiosamente lo spartito guida del Mancio, rianimando una fase offensiva spesso striminzita nella sua cinica efficacia. Certo, le sfide con Lazio ed Empoli hanno rappresentato due passi indietro dal punto di vista del gioco ma, paradossalmente, il ko col Sassuolo ci ha restituito una squadra che – nonostante i suoi limiti strutturali – se la vuole e se la sa giocare a viso aperto, se è il caso, arrivando addirittura a perdere una gara che meritava sicuramente di pareggiare e, vista l’ultima mezz’ora, probabilmente anche vincere.

Ora più nessuno parlerà di #culoInter finché la Beneamata non inanellerà nuovamente un filotto buono di 1-0 o finché Mancini e i suoi non torneranno in testa alla classifica ma ci ricorderemo che se s’è smesso di parlarne dopo una sconfitta immeritata e non perché la squadra ha dimostrato oggettivamente di valere qualcosa.

Ed è un po’ triste, onestamente.