3 Agosto 2018

Acción Romantica – Il canto del “Chino”

La rubrica di Stefano Mazzi: "Perché gli interisti sono gli ultimi dei romantici"

Se solo Osvaldo Soriano non fosse morto esattamente un anno prima di quel giorno, su quel gol di Empoli avrebbe scritto un libro intero. Avrebbe steso su carta decine e decine di pagine solo e soltanto per immortalare per sempre quei tre secondi, rendendoli eterni. Quella rete da centrocampo, quel pallonetto sparato via da un sinistro insolente con la stessa accuratezza di una balestra medievale, sembra uscito da un’altra era. Da un altro continente. Potrebbe tranquillamente starsene accanto alla storia del rigore più lungo del mondo, oppure a quella del grande capitano della celeste colpevole del “Maracanazo”, Obdulio Varela. Quel gol, quel fantastico, meraviglioso, quasi vergognoso gol, sarebbe potuto essere messo a segno tranquillamente in qualunque parte del Sudamerica.

In un campetto spelacchiato e pieno di polvere di Buenos Aires, oppure in qualche cortile malfamato di Bogotà. Sarebbe potuto essere messo a segno persino in un qualsiasi oratorio di Roma, tanto per rimanere in Europa. È una magia che unisce immaginariamente la fantasia di qualunque amante di questo sport, ovunque esso si trovi. Soriano non si sarebbe fatto scrupoli nel dedicate un intero libro a quella magia. Forse lo avrebbe chiamato “Il gol più lungo della storia” a sottolineare la distanza tra la magia e la rete, oppure “Recoba da casa sua”. Avrebbe sciolinato descrizioni e accarezzato immaginariamente quel piccolo folletto rioplatense. Come se il talento di un fuoriclasse fosse usato come un apriscatole per far uscire sogni e paure nascoste. Incredulità e devozione che aspettano solo uno spiraglio di lui. Avrebbe fatto tutto questo per loro, Osvaldo. Soltanto per quei tre fantastici battiti di ciglia. Avrebbe descritto tutto di loro. Tutto quello che c’era da descrivere. Il sole che all’81’ minuto di un Empoli-Inter di una domenica di gennaio ormai non scaldava più di tanto. Dei guanti di lana nera che la gente indossava per ripararsi dal freddo pungente. Le scritte sulle piastrelle dei cessi merdosi. Il loro tanfo da far resuscitare i morti e uccidere i vivi. La rotazione del vento. La sua intensità. La sua angolazione. Il rumore dei respiri dei bambini sugli spalti che si potevano sentire distintamente in quell’attesa immobile e silenziosa che separava il semplice e folle pensiero del “Chino” dal suo renderlo così dannatamente reale. Vero. Toccabile con mano. Quell’attesa che passa da un’assurda idea di un sudamericano con la faccia da cinese ad un gol semplicemente indimenticabile. Storico.

Ancora oggi c’è gente che ne parla come se fosse capitato ieri pomeriggio o poco più. “Che ricordo mi resta di quel giorno?” dirà Alvaro anni dopo, con quel sorriso spontaneo che sempre l’ha contraddistinto in tutta la sua vita. “Quando sono entrato ho visto Roccati un po’ fuori: volevo tirare da lontano, ma poi ho cambiato idea. Dopo qualche minuto ho visto che faceva due passi avanti, e che c’era vento a favore. Ho tirato“. Per fortuna, aggiungerei. Soriano senza farsi trascinare dal vortice delle emozioni avrebbe descritto minuziosamente l’impatto del piede col pallone. La sua perfetta coordinazione. Avrebbe elevato quell’arto inferiore sinistro al pari di chissà quale poesia della “beat generation”. Ad una qualche fantastica opera d’arte di un semisconosciuto scrittore colombiano vissuto e morto ubriaco per i “barrios” di Medellín. Avrebbe descritto perfettamente di come il mondo si sia come fermato a Montevideo mentre quella palla sorvolava come una stella cadente quel lontano cielo toscano anche se la notte non era ancora calata. Delle migliaia e migliaia di bocche aperte, immobili, incredule, che sugli spalti del “Castellani” oppure davanti alla Tv non credevano ai loro occhi. Che non potevano credere che stesse succedendo davvero. A loro. Alla loro squadra, scordandosi, almeno per tre secondi che in quel volare fantastico sembravano non finire mai, che se sei l’Inter, niente a su terra è e sarà mai normale. Neanche per un attimo. Figuriamoci per tre interminabili secondi. Alvaro sintetizza alla perfezione quella voglia tutta umana, quell’obbligo morboso, quasi fosse un’ossessione, di lasciare un segno in questa vita. Era il 25 gennaio del 1998 ed era come se la poetica, proletaria, umile polvere uruguagia degli anni ‘30 si fosse risvegliata dal suo letargo per rotolare fino alla Milano nerazzurra che si apprestava ad affacciarsi con fiducia ormai al nuovo millennio. È come se Alvaro Alexander Recoba Rivero fosse atterrato magicamente da un tempo lontano, come guardiano di bambini e sognatori. Di vecchi “bauscia” milanesi che parlano di Inter, di come erano belli i tempi di Carlo Masseroni mentre con le mani in tasca si trastullano il pisello. Come se fosse atterrato direttamente dal mondiale del 1930 oppure dalle epiche sfide con i cugini dell’Argentina di inizio secolo scorso. Con quel caschetto alla “Fantaghirò” e il viso orientale. Mentre il piede no. Quello non mentiva. Quello non poteva mentire. Quello lo riconoscevi all’istante che proveniva dal Sud delle Americhe. Forse anche troppo. Essere stati interisti negli anni di Recoba è stato un po’ come essere vissuti in Paradiso da latitanti, tagliagole bastardi che spacciano borotalco, col mal di testa che non ti lascia per un secondo. Senza esserselo potuto godere fino in fondo.

È stato come aver vissuto a fianco al portone di quello che tutto ciò ha creato. Sbattendosene di tutto. Del talento. Della poesia. Di un piede sinistro che al Louvre avrebbero pagato a peso d’oro, per dedicargli una stanza tutta per sè. Tutta sua. Di un esordio più da meteorite che da meteora. Fregandosene del fatto che Moratti si sarebbe indebitato per lui. Avrebbe perso tutto quello che aveva pur di pagarlo fino all’ultima lira disponibile. Di averlo nel giardino di casa a giocare col cane cercando di scartarlo e per tirare punizioni al muro del retro della sua villa. Così. Solo per il gusto di vederlo. Ammirarlo. Adorarlo. Desiderarlo come si desira un gelato una notte di agosto. Chissà se il “patron” Massimo si è mai tatuato il numero 20 in qualche parte nascosta del suo corpo, mentre macinava pacchetti di sigarette per il dolore. Mi piace pensare a Moratti, il giorno dell’addio al calcio del “Chino”, nascosto in curva del Nacional tra la gente del “Parque Central” con al collo la sciarpa del “tricolores” e sotto il cappotto marrone la maglia nera e azzurra con il numero 20, a saltare con lacrime che scendevano come fiumi sul suo volto pieno di rughe e racconti, a rendere omaggio a quell’amico che è stato causa di mille sigarette. Un compagno di mille battaglie. A quel genio che solo lui è riuscito a capire davvero fino in fondo. D’altronde se il giorno che dovrebbe essere quello del “Fenomeno”, esordisci, subentrando all’72 minuto a Maurizio Ganz, segnando una doppietta storica, con due tiri fatti partire direttamente dal paninaro fuori la Nord, bèh, puoi solo che essere speciale. Unico. Non puoi che avere per sempre un posto speciale nel cuore dell’uomo che ti ha comprato dal “Club Nacional de Football” appena ventunenne, per colpa, come ripeterà molte volte il buon Moratti, di una vhs sgranata, registrata malissimo capitata nel suo ufficio quasi per sbaglio, che riproduceva sulla sua televisione catodica le immagini poco nitide di un talento purissimo. Di un ragazzo che sembrava galleggiare per aria. Leggero come le nuvole, almeno fino a quando non decideva di far esplodere quel sinistro, più simile ad un castigo di Dio che a un semplice e mortale tiro.

Era il 31 agosto del 1997, e chi era presente quel giorno, al Meazza o più semplicemente su questa terra, non potrà mai scordare cosa significano per un tifoso, per il cuore di un bambino interista non ancora sviluppato, simili giorni. Simili domeniche. Simili emozioni. Specialmente se sei approdato a Milano dopo non averci pensato neanche un secondo se scegliere tra l’Inter o la Juve, perché a San Siro ci giocava in tuo idolo, un’altra leggenda nerazzurra, quel Ruben Sosa protagonista assoluto della Coppa UEFA 1994. Che giocatore straordinario “El Principito”. Oggi non avrebbe prezzo, oggi varrebbe la Tour Eiffel con la pizza intorno, altro che Neymar. Ma chi non tifa Inter non potrà mai capire cosa vuol dire essere costantemente innamorati ogni singolo istante della propria vita. Ventiquattro ore su ventiquattro. Trecentosessantacinque giorni all’anno. Se soltanto Osvaldo non fosse morto quel maledetto, infame 29 gennaio del 1997, a quest’ora avremmo un libro su questa terra che parla semplicemente di Álvaro da Montevideo, il ragazzo di “Curva de Maronas”, “barrio” povero e triste nel centro della capitale uruguagia. Magari ci avrebbe spiegato con precisione e a distanza di più di vent’anni quell’arcano mistero che ha avvolto il Chino in tutta la sua carriera.

Sì perché anche se sono passati due decadi, penso che nessuno di noi abbia ancora capito bene che cavolo di ruolo avesse davvero Recoba in campo. Quale numero fosse quel cinese sudamericano. Un nove? Un sette? Un dieci come lo intendiamo noi oppure oltre? Seconda punta? Esterno? Trequartista? Forse non aveva ruolo né tantomeno numero. Forse Alvaro era semplicemente ”el futbol”. Bastava che la palla passasse dalla sue parti e se era una giornata sì, una di quelle in cui “Chino” era uno Yes Man, era fatta. Non ce n’era per nessuno. Neanche una 44 Magnum avrebbe fermato ”Fantaghirò” nelle sue accelerazioni e cambi di direzione. Quando Alvaro aveva voglia, ma voglia davvero, era la cosa che più assomigliava a Dio su di un campo di calcio, Ronaldo permettendo. “Alvaro non è stato il miglior giocatore al mondo solo perché non lo ha voluto“ disse una volta un altro Re, tale Juan Sebastián Veron, un altro che la palla sapeva come trattarla, accarezzarla, portarla fuori a cena sotto le luci di San Siro per farla sentire veramente donna. Come dargli torto? Forse Alvaro non aveva semplicemente tempo per essere il migliore. Quella pigrizia maledetta che tanto faceva impazzire Recoba è stata la causa dominante di quel peccato mortale. Di quella tristezza buia e solitaria che ci ha impedito di toccare l’infinito pur avendolo lì ad un passo, accorgendoci solo tanto tempo dopo che semplicemente non era infinito. Era solo amore. Una passione accecante. In alcuni periodi, Recoba è stato tutto per noi. Altre volte meno di niente. È un po’ come se fosse stato una metafora della vita. Un giorno sei in cima al trono. L’altro giorno neanche ti salutano, e sperano solo che tu esploda velocemente. Sono i particolari che rendono credibile una storia, e lui, il ragazzo col caschetto, è stato il particolare più bello di tutti. Se solamente Soriano non fosse morto, oggi Alvaro sarebbe poesia. Quel bambino, che sogna Enzo Franscescoli e Rubén Sosa, dribblava le macchine vecchie di decenni del suo “barrio” come se fossero birilli immobili, usava il destro giusto per tenersi in piedi e quando tirava di sinistro verso quella porta disegnata coi gessetti o buttata a terra con un paio di felpe, beh, il quartiere si fermava in estasi. In venerazione. Come se tutti avessero visto un’apparizione. Un miraggio. Un miracolo. Come se la Vergine Maria fosse atterrata su questa terra sotto forma di luce uruguagia. Il mondo andava a rallentatore finché il suono sordo del pallone contro il muro, dopo aver trafitto l’ennesimo incolpevole e improvvisato portiere, svegliava tutti da quella pausa mistica. Dio mio come calciava il “Chino”. E più calciava più il ‘futbol’ si nutriva della sua essenza, di quella poesia senza versi, di quell’arte, di quello spettacolo devastante e senza biglietto, di quelle pitture angeliche per il cielo di Montevideo. Celestiali. Era il calcio che aveva bisogno di Recoba, non il contrario. ‘Come fa a calciare così?’ si chiedono tutti. ‘È il piede sinistro di Dio’ sussurra qualcuno sottovoce, ancora sotto shock.

Era un predistanato. Un fenomeno. Un umano col piede alieno. Un mancino dall’effetto micidiale. Un tiro a giro mai visto. Un patrimonio per l’umanità, calcistica e non solo. Recoba è stato per noi interisti come quella ragazza bella e misteriosa che vedi in discoteca un sabato sera. La guardi tutta la notte, la segui con lo sguardo, pensando e sognando ad una vita con lei, ma sa già che un giorno, prima o poi, lei ti tradirà. Era quella salivazione azzerata, nostra e avversaria, quando ci fischiavano una punizione a favore, perché non sapevi mai cosa potesse tirare fuori. Una magia oppure il peggiore tiro della storia. La linea era sottile e facilmente valicabile a seconda dell’umore di Alvaro. Mentre il vento sferzava “Curva de Mantoras”, il “Chinito” imparava a calciare usando una palla medica pesa 3 kg, per dare maggiore potenza a quel tiro, all’inizio della carriera, non certo irresistibile. Mette a segno reti che vanno oltre la patria, la bandiera, oltre l’odio tra le squadre e l’amore tra la gente. Quel sinistro è un racconto ‘on the road’ per le strade del Sudamerica, tra una sbronza e l’altra ed un mare di fighe dai culi perfetti. Mentre a Montevideo cala la notte, un vecchio del quartiere, vestito con pantaloni di camoscio giallo ocra e la giacca a quadri verdi e neri di una lana che ti fa pizzicare ovunque, con quella barba ispida, bianca, appena accennata su un volto scolpito con l’accetta, ricorda di quando Alvaro da bambino giocava sui campi per bambini ma il suo sinistro non era uguale a quello dei suoi coetanei, ed era lui a calciare tutti i rinvii dal fondo. Tirava così forte che il portiere si metteva in guardia, perché già sapeva quello che sarebbe successo, già sapeva che Alvaro avrebbe indirizzato la palla dritto in porta, di punta e a effetto. Anni dopo, quel portiere sbarbato e senza paura si un campetto sperduto nell’immensa periferia di Montevideo si sarebbe trasformato in Giovanni Cervone, vecchio guardiano italiano di mille battaglie, veterano di un calcio ormai andato insieme a quel suo capello lungo e unto.

Che partita! Che gente! Inter – Brescia del 31 agosto 1997 come stile di vita. Il fenomeno, almeno quel giorno, è un altro. Non quello che tutti aspettano. Non quello per cui tutti quel giorno sono là a San Siro. Si chiama Alvaro, viene da Montevideo e di professione fa l’artista. Sette minuti dopo il gol del Brescia targato Dario Hubner, Benoit Cauet lotta sulla sinistra, vince un contrasto contro Antonio Filippini, appoggia una palla a Recoba che la stoppa. Guarda Cervone e da circa trenta metri lascia partire un sassata terrificante con le tre dita sudamericane direttamente all’incrocio che per qualche strano motivo non sposta indietro il Meazza di una ventina di centimetri. Gol. Roba da denuncia. Alvaro è appena entrato e per poco non ha attentato alla vita di un paio di avversari si trovano sulla sua traiettoria con un tiro di una violenza inaudita. Quasi vergognosa. Il mondo lo scopre. Il ragazzo di Curva ha fatto strada. E tanta. Sono lontani i tempi delle porte coi gessetti. Delle auto vecchie decenni. Ma non è finita. No, niente affatto. La storia si ripete all’87esimo. Stavolta i metri di distanza saranno anche trentacinque se non qualcosa di più. La punizione è proibitiva per tutti, e tu pensi che sul punto di battuta si presenti Ronaldo, d’altronde “è il suo giorno”. Ed invece no. Invece su quella palla ci va il “Chinito” che scaglia verso la porta dell’estremo difensore ex Roma letteralmente un missile allucinante. Preciso, teso, morbido ma allo stesso tempo forte. Fortissimo. Devastante. Quel sinistro. Dio mio quel sinistro. Quanto l’ho amato quel sinistro. Quasi un’arma bellica. 2-1. Quel ragazzo che nessuno conosceva, ora è sulla bocca di tutta Italia. Nel giorno in cui avrebbe dovuto esserci un altro ventunenne su nell’Olimpo. Un brasiliano che di lì a poco farà la storia del calcio ed entrerà non tra i primi cinque più forti della storia, ma tra i primi uno. Quel giorno, però. il fenomeno, è un altro. Porta la 20, lo chiamano “Chino” e ha i capelli di “Fantaghirò”. Usa il sinistro come fosse un pennello ed un martello allo stesso tempo, mentre l’unico cosa capace di fare col destro è aggiustare la palla per il mancino. C’è un angelo speciale per certe giocate. Per certi giorni. Per certi esordi. O ce l’hai o non ce l’hai. Non puoi farci niente.

Ci sono ragazzini che lo sognano milioni di volte un debutto così, calciatori che ci provano centinaia di volte e non ne azzeccano mezza. Arrivano ad esultare se prendono l’esterno della rete oppure addormentano un cane poliziotto a bordo campo, tanta è la frustrazione del non riuscirci mai. E poi ci sono loro. I prescelti. Quei calciatori che neanche hanno voglia di giocare, che quando “dicono no” puoi star pur certo che c’è un difensore dalle loro parti che tranquillamente può bersi il suo thè coi biscotti o sorseggiare una tazza di mate se solo lo preferisce, ma che quando sono in giornata, quando decidono che è davvero l’ora di dire basta, hanno un talento che sopperisce alla loro pigrizia. Tu li vedi, sembrano ciondolare per il campo come un pendolo mosso dalla rotazione del mondo. Inerti. Abbandonati agli eventi della vita. Non fanno niente per ore e poi dal nulla calano l’asso che fa saltare il banco. Sembra che vivano tra le nuvole, e poi dal niente piazzano il colpo che ti spiazza. Che ti meraviglia. Recoba era questo, nei giorni di sole: segnava gol dove era proibito farlo. In modi ancora oggi non consentiti dalla legge. Ricordo un gol al Lecce, quello del 6-0 se non mi sbaglio, nel novembre del 1999, che nessun mortale avrebbe mai anche semplicemente pensato di segnare: riceve palla da Gigi Di Biagio mentre taglia verso il centro dell’area, l’addomestica di sinistro spalle alla porta e in una frazione di secondo, sempre di sinistro, cala un sombrero sopra la testa del povero difensore salentino, Alberto Savino, aspetta l’uscita di Chimenti e ancora col mancino, perché col destro non si sale neanche sull’autobus, l’appoggia sotto la Nord con una tale dolcezza da trasformare lo zucchero in veleno. Con una morbidezza che solo i grandi, in grandi momenti, sanno tirar fuori. Quasi mai, quando Alvaro prendeva la mira, c’era il rischio che trasformasse il portiere in un eroe. A Bologna calcia una palla così forte che per tre giorni sulla città delle due torri sferza una tramontana micidiale. Il gol vittoria nella rimonta contro a Samp quell’assurdo 9 gennaio 2005. La punizione dipinta contro la Roma nel 2002. A Como segna con un tiro così a giro che sono sempre stato sicuro che, se non ci fosse stata la rete, il pallone avrebbe fatto il giro del quartiere e poi sarebbe tornata perfetto sui suoi piedi come boomerang tanto perfetto era quell’effetto mancino. Ancora contro il Lecce, stavolta in Salento però, dribbla mezzo “Via del Mare” prima di depositare la palla in porta. Il gol “Olímpico”, marchio di fabbrica della casa, con cui ci ha salutati, sempre contro l’Empoli, ma stavolta a San Siro e con qualche ruga in più, una specie di passaggio di consegne tra quello che è stato è quello che non sarà più, direttamente da calcio d’angolo, il 29 aprile del 2007.

Il canto del “Chino”. Sono passati praticamente dieci anni da quella amichevole contro il Manchester United organizzata per presentare il Fenomeno ai suoi nuovi discepoli “Mi ricordo il giorno della presentazione ufficiale, un’amichevole contro il Manchester United a San Siro. Sono entrato allo stadio, dove non ero mai stato, e c’erano tutte le luci spente. Durante la presentazione, i giocatori venivano chiamati uno a uno e illuminati da un fascio. Quando hanno acceso i riflettori c’erano novantamila persone. L’Inter aveva organizzato questa festa perché avevano comprato Ronaldo, e io mi sentivo un infiltrato”. Eppure Recoba è stato sopratutto altro. Insolenza. Indolenza. Apatia. Passività. Abulia. Ricordo che c’erano giorni in cui saresti sceso in campo direttamente dal secondo verde oppure d primo blu solo e soltanto per rincorrerlo e prenderlo a legnate. Ricordo una punizione contro il Modena una sera di freddo assurdo, che se ci fosse stato l’ottavo anello al Meazza avrebbe ammazzato qualcuno. È un patrimonio a perdere. Solo una rimessa. Una luce ad intermittenza che quando dovrebbe accendersi sta ferma. Immobile. Ma quando decide di farlo, ti fa sognare anche quando non hai niente da sognare. Anche quando la vita è una merda. È in quei momenti che si manifesta Recoba. Quando meno te lo aspetti. Quando ne hai più bisogno. Tu, non l’Inter. Alvaro è divino. Aureo. Discontinuo da farti schiumare di rabbia e meravigliosa da farti emozionare, da farti scendere le lacrime dai brividi. Toccare le stelle. Da farti accapponare la pelle. Tremare così tanto dal freddo da non riuscire a smettere. Anche il 31 d’agosto. Poi un giorno tu apri li occhi da quel sogno durato più si dieci anni e scopri che Recoba non c’è più, che la vita scorre, va avanti. Dura al massimo il tempo di un paio di notti. Di quattro estati. Di un battito di ciglia. Dura al massimo qualche anno. Quegli anni scanditi da nomi di giocatori che credi immortali. Mitologici. Che non pensi possano smettere mai. Che ti hanno preso per mano e accompagnato negli anni più importanti della tua vita, e sai che Alvaro, nonostante tutto, nonostante le incazzature e i giorni in cui l’avresti strangolato, è stato uno dei più importanti, se non il più importante. E poi ti dicono che Recoba lascia. Addio. Arrivederci. È stato bello. Come un parente che per quasi vent’anni ti ha visto sedere a Natale sempre nello stesso identico posto, senza dirti niente, fino ad adesso che sei un uomo, e ora che lui non c’è più, solo adesso ti rendi conto che un giorno i bambini seduti a quel tavolo eravamo noi. Recoba. Che ti ha preso per mano per tutta la tua adolescenza come un amico scazzato. Recoba. Il nostro “Chino”. Uno che non ti accorgi neanche che ci sia fino a che non c’è. Uno degli ultimi romantici di un calcio che non c’è più. Nato solo e soltanto per giocare a calcio nella sua forma più pura. Un nome che sei così tanto abituato a sentirlo nominare che non ti poni neanche più il problema che un giorno possa smettere. Sai che c’è. È lì. È questo ti basta. Anche per gli avversari. Quando vuoi saziarti, estasiarti di calcio, lui è li. Basta guardarlo. Uno che arrivò qua in Italia che non pesava neanche 60 kg e con una capigliatura da telefilm fiabesco e se ne andò in sovrappeso con il suo carico di gloria e soldi. Tanti.

Non avremo mai altro sinistro all’infuori di lui. A noi bastava solo il gusto di vederlo. Al di là del risultato. Dei trofei non vinti. Di una carriera buttata nel cesso anziché glorificata a divinità. Si perché Recoba ha vinto un sesto di quello che poteva e doveva vincere. Soltanto non aveva tempo per farlo. O voglia di farlo. Peccato. Peccato che il calcio si conti in trofei e non in bellezza. Peccato che se uno non ha vinto molto ‘è un perdente’, senza vedere realmente ciò che era e ciò che regalava in campo. Recoba era un esteta. Un artista. Uno che non avrebbe dovuto invidiare niente a qualsiasi scultore rinascimentale se solo avesse avuto un minimo di ambizione. Un minimo di orgoglio. È stato un maestro, un idolo, un professore di arte. Un fenomeno. Peccato perché con quel sinistro avrebbe potuto nutrire la gente, fermare le guerre o addirittura sfidare gli dei. Avrebbe potuto regalare ore di musica anche senza suonare nessuno strumento. Avrebbe potuto scrivere libri senza usare l’inchiostro. Non ha avuto voglia di farlo. È stato come uno scrittore svogliato che non scrive libri per mesi. Anni. Poi, un giorno, butta giù due righe ed è poesia. Alvaro Recoba è stato per l’Inter quello che Juan Román Riquelme è stato per il Boca Juniors m. Non il meglio, ma quasi. ‘El diez’. Il calcio al suo stato più puro. Più sublime. Un messia del signore. Un messaggero del calcio spedito quaggiù per assistere la parte buona del paese. Per combattere i cattivi che le istituzioni vogliono sempre vincitori. Un mito. Una leggenda grande come il suo continente di appartenenza, il Sudamerica. Perché con quel sinistro è riuscito ad entrare nel cuore di un popolo che di Campioni ne ha visti. Tanti. Non è facile stuzzicare il palato di San Siro. Ma nonostante tutto ci é riuscito. Per noi. Per se stesso. E per gente come Gaston Pereiro, suo giovane compagno di squadra al Nacional che ha deciso di tatuarselo sul braccio quel viso dai tratti asiatici. Per ringraziarlo di cotanta bellezza. Di quella immensa poesia non in versi. Di quella preghiera senza Dio fatta di eterni colpi di sinistro. Per un popolo intero. Per l’Uruguay e l’Italia, quella nera e azzurra. Per uno dei tanti calciatori dei ’90 che abbiamo avuto la fantastica fortuna di aver visto giocare e che potremo un giorno raccontare ai nostri nipoti. ‘Ti racconterò una favola tesoro, che parla di un sinistro straordinario che solo non aveva tempo di farlo..’, magari inizierà così il racconto, chissà.

Lo faremo solo per gente così. Per lui e altri pochi eletti. Solo per lui e quel suo piede latino. Fin troppo. Per uno dei più grandi di tutti i tempi, se solo avesse avuto voglia. Tempo. Ambizione Lo faremo per tramandare la leggenda. Per alimentare il mito Lo faremo per gente che quel sinistro lo ha pregato. Baciato. Venerato. Per gente che per lui non ha avuto paura di niente, neanche di averlo difeso nelle notti più buie. Nelle domeniche più tempestose, quando il cielo tuonava rabbia e fulmini. Come dargli torto. Come ? Grazie di tutto Alvaro. Grazie per tutto quello emozioni, quasi capitate per caso e non volute. Non ha importanza. Davvero. È bastato questo. Nonostante tutto, nonostante molto, non potevamo chiederti di più. Grazie di tutto, da tutti noi, “Chino” mio.

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