28 Gennaio 2013

EDITORIALE – La giornata della memoria nel nome di Arpad Weisz

Di Aldo Macchi.

Mi perdonerete se per una volta il nostro appuntamento settimanale non vedrà l’Inter al centro del discorso. C’è un fatto che merita di urlare “Vergogna” con ancor più ardore di un Conte qualunque dopo un rigore non dato. Passano gli anni ma è bene che nessuno dimentichi. Troppe strumentalizzazioni, anche ieri, sembra che non sia impossibile smettere di polemizzare e fare discorsi politici nemmeno in giornate importante e delicate come la giornata della memoria.

NON SOLO EBREI – Proprio per questo non voglio parlare di come l’Italia politica ha vissuto la giornata di ieri, preferendo spostare l’attenzione sul vero significato di un evento che ogni anno rischia di perdere la grossa occasione per dare voce alle persone zittite dalla loro identità. Perchè nella giornata della memoria non si celebra soltanto il ricordo dei sei milioni di ebrei sterminati durante la seconda guerra mondiale dai nazisti, si ricordano anche i milioni di zingari, slavi, omosessuali, portatori di Handicap, prigionieri di guerra uccisi in quei campi di concentramento perchè diversi dall’idea di uomo professata da chi aveva il potere: non solo nazisti o fascisti, ma anche comunisti. C’è chi ricorda anche le morti di oltre oceano, quelle del popolo nero in America uccisi per il loro essere esteticamente differenti. Insomma l’invito, ogni anno che passa, è quello di ricordarsi di tutti quelli uccisi poichè “diversamente uomini”. Fedi, razze, colori, difetti, ideologie, tutte ragioni sufficienti per eliminare l’identità di una persona e ucciderla senza rimorsi. Fosse comuni, forni crematori, gesso isolante per tentare di frenare i contagi. Uomini tramutati in sapone, lampade, anche vestiti: progresso medico grazie all’utilizzo di uomini al posto delle cavie. Tutto questo è realtà, che ogni anno, anche solo per un giorno, torna a bussare nella nostra memoria.

NON SOLO SCONOSCIUTI – Tra le milioni di vite spezzate, tutte riportate in una stele chilometrica, inquietante quanto fredda e doverosa, c’è anche il suo nome, il nome del Mourinho degli anni ’30, come è stato definito dal giornalista del Corriere della Sera Carlo Baroni. Arpad Weisz, il luminare del pallone, ungherese di nascita, italiano di adozione. Nel suo palmares uno scudetto con l’Inter e uno col Bologna, ma anche l’aver scoperto il talento di un certo Meazza. Nella sua vita un solo “errore”: l’essere ebreo. Le leggi razziali, arrivate in Italia, lo costrinsero a fare le valigie e andare, non mi riesce proprio di dire scappare, in Olanda dove cercare di ripartire. I Paesi Bassi, la democrazia per antonomasia, il posto perfetto per ricominciare. Ma anche qui, nemmeno l’autore del manuale del calcio citato da Altafini qualche anno più tardi nelle sue telecronache, riuscì a trovare una panchina. Il suo Dio precedeva la sua carriera e le porte degli spogliatoi non si aprivano al suo passare. Per lui ci fu solo una squadra di periferia, disposta a guardare l’uomo e non il credente. Ma la guerra era ormai mondiale, l’Olanda fu invasa e ora l’unico verbo adatto è proprio quello che ho cercato di evitare fino a questo momento: scappare. Weisz e famiglia furono costretti a fuggire come latitanti, come colpevoli, ricercati per credere in un Dio differente da quello dei puri. “Non puoi più allenare: sei ebreo”. Inizialmente la famiglia dell’ungherese fu aiutata dai giocatori allenati da Arpad, ma poi nemmeno quegli ultimi rapporti umani bastarono a impedire il dramma. I nazisti arrivarono a loro, non per portarli in Germania, non per onorificenza e nemmeno per proporgli la nazionale: erano ebrei, esseri inferiori a cui era superfluo rivolgere la parola e di cui non poteva esistere neppure il nome: anche solo il fatto che respirassero la stessa aria dell’esercito tedesco era motivo di sdegno. La famiglia fu separata e per l’allenatore dell’Inter la destinazione fu Auschwitz, per lavorare, perchè il suo fisico, non la sua persona, poteva essere utile. Il resto della famiglia invece non aveva alcuna utilità e sulla loro strada il gas sostituì l’ossigeno e la morte la vita. Per Arpad l’esistenza continuò ancora per anni, fino a quando una mattina del 1944 non si presentò all’appello. Finì in silenzio, di notte, stremato, l’esistenza di una leggenda dello sport che amiamo, la sua vita era già finita qualche tempo prima, forse il giorno in cui la sua fede gli tolse il lavoro.

RAZZISMO E VERGOGNA – Ricordare è doveroso, anche in silenzio, anche senza gesti eclatanti, anche solo con la lettura di un brano lasciato da quegli uomini e quelle donne. Parlare è pericoloso, soprattutto se fatto con fini personali e differenti dalla semplice voce concessa alla memoria. Per questo, da interista, i “Buu” razzisti di Bergamo, gli insulti senza ragione provenienti dagli spalti, dimostrano che ancora dopo quasi 70 anni di giornate della memoria ce ne vorrebbero di più, perchè di ignoranza non si guarisce se non con pillole di cultura. Chiudo con una citazione di Henry David Thoreau, che mi commuoverebbe sentire da molte di quelle persone che ancora ritengono che l’unico errore di quegli anni fu quello di non aver completato l’opera:

“Non l’amore, non i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia, datemi la verità!”