15 Aprile 2012

FOCUS – Il dramma di un ragazzo a cui la vita aveva chiesto molto

Sono ore di tristezza quelle che scorrono inesorabili da quel momento, sul campo di Pescara, dove un ragazzo di 26 anni ha lasciato il suo corpo esanime durante l’ultima sfida della sua vita. Si sono dette molte parole, correndo alla ricerca del colpevole; perchè quando una cosa ti spaventa, ti colpisce nel profondo come un fulmine in un cielo sereno, l’uomo cerca di trovare una ragione che possa in qualche modo, se non giustificare, almeno chiarire le cause di un avvenimento inaccettabile. Come è possibile che un ragazzo muoia a 26 anni? Come può uno sportivo di quei livelli avere un infarto inaspettato? Come possono i vigili parcheggiare in seconda fila? Perchè ci hanno messo così tanto i soccorsi? Come possono aver fischiato a San Siro la decisione di sospendere i campionati?

Tante domande, senza risposte, fatte più per cercare di sfogare la propria rabbia su qualcosa di tangibile, perchè prendersela con la morte e con il destino ci fa sentire così impotenti e insignificanti. Non voglio fare discorsi che elevino il personaggio pubblico, così come la mia non sarà un’invettiva contro gli errori, o orrori, umani commessi durante i soccorsi. La mia vuole essere un’analisi che volga lo sguardo verso il futuro, che con tristezza possa analizzare il presente con una mano sul fondo della pagina, per voltarla e andare avanti nel grande libro della vita. Piermario Morosini era sì un calciatore, ma prima di tutto era un uomo, attaccato alla vita, come testimoniato dalla grinta con cui ha cercato in ogni modo di rimanerci attaccato. Quasi come a ricordare quanto appena rivissuto nella Passione pasquale, Piermario per tre volte è caduto sul campo, cercando in ognuna di esse, di ritrovare un equilibrio che sempre più andava mancando. Poi la terza, l’ultima dove prima le ginocchia, poi a gattoni e infine a peso morto immergeva il viso sull’erba dove aveva investito tutta la sua vita. Vicino a lui il compagno Schiattarella, subito conscio che qualcosa non andava, ha iniziato a sbracciarsi per cercare di attirare l’attenzione dell’arbitro, per fargli capire che quella non era la solita lagna per perdere tempo, con le panchine, di entrambe le squadre, subito in allerta, perchè quelle cadute erano troppo fuori dalla norma. Alla fine la corsa disperata per cercare di strappare Morosini dalle braccia della morte. Le lacrime dei compagni e tutto un mondo con il fiato sospeso che diceva fra sè e sè “Forza Moro! Non mollare, puoi farcela!”, solo chi lo conosceva davvero a questa preghiera aggiungeva un pensiero legato alle difficoltà che in soli 26 anni aveva già affrontato quel giovane accasciato al suolo.

E’ nella tragedia che il calciatore che vedi giocare, esultare, soffrire ogni domenica, smette la maglia del beniamino e indossa quella di uomo. In quel momento la fragilità umana è emersa sopra ogni altra cosa: le lacrime disperate dei compagni di squadra, ma anche degli avversari, figli e fratelli di un mondo fatto di convivenza quotidiana, eroi per un giorno, uomini per sempre. I movimenti delle gambe all’inizio e un timido sospiro di sollievo, una serenità che ha però la stessa durata di una boccata d’aria perchè poi c’è il tracollo. Un massaggio cardiaco che inizia la sua inesorabile corsa contro il tempo, i soccorsi, la barella, l’ossigeno e quel braccio che cade a peso morto dalla lettiga, prontamente riportato sul corpo incosciente del ragazzo. Le porte dell’ambulanza che si chiudono e il dirigente del Livorno in lacrime che con ampi gesti di braccia esterna la sua tragica diagnosi: è finita.

Nel gelo di uno stadio dilaniato dalla diretta di una morte apparente, si alza un coro, spontaneo quanto collettivo “Sospendete la partita!”, un’ insieme di voci che supera i limiti dello stadio di Pescara e si diffonde in tutto lo stivale: arriva la notizia della morte ufficiale di Morosini e con essa la decisione di sospendere tutti i campionati italiani di calcio. Perchè il dramma è di tutti, perchè è morto l’uomo, ed è morto sul campo, la morte è entrata sul manto verde e lo ha fatto in diretta televisiva. Da quel momento sono iniziati i fiumi di parole di molti, ma anche il silenzio di alcuni, su tutti uno, un testimone del fatto, a pochi metri di distanza e immobile, quasi paralizzato da una scena troppo forte per lui: Zeman. Il tecnico boemo, ha lasciato lo stadio in un silenzio ancor più glaciale di quello che lo ha sempre caratterizzato, con il ricordo ancora fresco della scomparsa dell’amico Franco Mancini ben impresso nella memoria. Un colpo al cuore, diverso da quello che ha tolto la vita a Morosini, ma a suo modo ancor più doloroso, perchè è la sofferenza di chi sopravvive, di chi dovrà convivere con quelle emozioni e quel dolore da oggi in poi. La morte esiste solo per chi gli sopravvive, come la sorella di Morosini, disabile e sola, perchè la vita aveva già chiesto molto alla famiglia Morosini, prima i genitori di Piermario, morti entrambi in poco tempo, poi il suicidio del fratello maggiore. Ma malgrado tutto questo, non ha mai mollato, ha sempre dato tutto per vivere la sua vita in modo pieno fino alla fine.

Mentre in queste ore il mondo del calcio si chiude nel dolore per la perdita di un proprio figlio, chi crede si appella al sollievo di poter pensare il giovane Morosini ricongiunto ai suoi cari, chi più fatica ad accettare tutto questo cercherà il colpevole più adatto per questa triste faccenda, il presidente Spinelli pensa al ritiro della maglia “25” del Livorno, qualcuno pensa a come poter seguire la sorella disabile, ma a tutti, almeno per un secondo, pensando a chi gli è più caro, alla fragilità della nostra vita e a questa tragedia, verrà voglia di un abbraccio che testimoni che noi ci siamo, che siamo vivi, e che dobbiamo affrontare la nostra esistenza perchè è troppo grande il rischio di lasciare qualcosa di intentato.

(foto presa da Ansa)