25 Febbraio 2015

FOCUS – Doyen e la Serie A che raschia il fondo

di Fulvio Santucci C’è un nome che ricorre nei piani alti della Serie A e che, almeno per ora, inspiegabilmente viene ignorato da troppa informazione: Doyen Sport Investments. Per i comuni mortali niente più di un’asettica Società specializzata in cose vicine al pallone (come può essere Infront), mentre per chi affolla i salotti buoni è, insieme a Jorge Mendes, l’indiscussa Deus ex Machina tra le organizzazioni che muovono i soldi nel mondo del calcio. Raccontare questa storia significa scoperchiare un calderone che emana un olezzo di compromesso economico e di posizioni dominanti a scapito di quello che dovrebbe essere nell’immaginario e nei fatti un libero e concorrenziale mercato, pertanto al lettore ancorato all’ormai romantica poesia di un calciomercato eseguito totalmente in funzione di esigenze di campo e sana competizione consigliamo di non proseguire l’approfondimento. Per chi ha invece necessità di tirare alcune somme che nel calciomercato di superficie proprio non tornano, ci addentriamo in questo intricato racconto. Per il nostro calcio inizia tutto a Taormina, il 14 Luglio del 2013. IL PATTO D’ACCIAIO – Nel pieno di un calciomercato estivo che può sembrare a prima vista avere dinamiche uguali a qualsiasi altra giornata trascorsa a parlare di sogni, trattative e botti succede qualcosa che può cambiare radicalmente il volto del calcio italiano. In un resort della già citata perla siciliana si incontrano infatti Adriano Galliani, Claudio Lotito ed Enrico Preziosi onorati del ruolo di gran cerimoniere dal Presidente del Catania Antonino Pulvirenti e il suo fido scudiero Pablo Cosentino che da lì in poi sarà protagonista di un’irresistibile ascesa nel club etneo,  attraverso i quadri dirigenziali fino alla carica di Vicepresidente. L’incontro viene ridotto da buona parte di stampa nazionale ad un semplice summit di mercato tra dirigenti in buoni rapporti, visto che Galliani e Preziosi fanno asse da diverso tempo, un rendez-vous dalle sfumature sommarie per intavolare qualche buona trattativa se non addirittura un’occasione di relax tra vecchi lupi di quel mare che è il calcio italiano. E questa versione potrebbe tranquillamente essere quella buona, se non fosse che a quella rimpatriata prende parte anche un soggetto esterno al calcio italiano e addirittura esterno al territorio italiano: si chiama Nelio Lucas, è portoghese ed è a capo di un gruppo che esercita un peso specifico decisivo nel resto del mondo in cui si pratica il giuoco del calcio. Di cosa stanno parlando? Nessuna spy story, nessun file segretissimo del quale la stampa pallonara farebbe fatica a cogliere i frammenti ed unirli perché nel resto del mondo, o almeno in Spagna, si sa benissimo che cosa si sta mettendo sul tavolo di quel resort di Taormina: il futuro dell’intero calcio italiano. Da quel momento, alla presenza del Presidente di Lega e di un Consigliere FIGC, si delibera l’ingresso dei fondi di investimento nel calcio italiano attraverso un gruppo che rappresenta in quel momento l’assoluto vertice del settore: Doyen Sports Investment. DOYEN, L’INARRESTABILE COLOSSO– Doyen Sports Investment è un fondo privato costola del Doyen Group, un gruppo di investimento la cui espansione è ormai titanica che opera in diversi settori: particolare rilevanza ha quello energetico, dai metalli ai carburanti, che rappresenta il motore con cui la macchina si è mossa arrivando poi a mettere le mani sul gioco più bello del mondo. Il fatto che Doyen sia operante in una pluralità di settori merceologici non è un dettaglio da poco, come vedremo più avanti in questo articolo. L’interesse riguardante il calcio nasce dal fiuto degli affaristi interni al gruppo in un business dalle potenzialità immense, che va pertanto embrionato in quella parte di mondo in cui il calcio è fondamento della cultura ma la sua struttura non è abbastanza potente, a livello economico, per poter reggere un modello scevro da qualsiasi influenza esterna: il Sudamerica, in particolare il Brasile. Il calcio brasiliano è infatti imprigionato nella sua antitesi: il paese per antonomasia più foriero di talenti che non genera al suo interno abbastanza forza economica da poter pensare di trattenerli a lungo. Doyen Sports Investment (da questo momento DSI per comodità) si inserisce in questa empasse attraverso un’operazione tanto semplice quanto redditizia: acquisisce quote o interi cartellini di giovani promesse carioca finanziando di fatto i club cedenti e ne ottiene in cambio lo sfruttamento dei diritti economici pari alla percentuale acquisita sulle future transazioni. Una pratica del tutto comune laggiù, dove l’intera economia del calcio è fondata su questi capitali esterni che di fatto diminuiscono o tolgono del tutto l’autonomia di gestione tecnica ai club, recitando una parte talvolta dominante nello scegliere destinazione e cifre come avevamo già visto succedere in Argentina nell’ambito del trasferimento di Dybala. A partire da questo contesto, DSI si espande finchè nel 2011 fa il suo vero salto di qualità: l’ingresso in Europa. IL FEUDO IBERICO – DSI trova da subito terreno fertile nella penisola iberica, ovvero là dove a dispetto delle apparenze il sistema calcistico si è avvitato da tempo in una crisi da cui non pare esserci via d’uscita. Scegliere la Liga spagnola come portone di ingresso alle potenziali ricchezze del calcio è una mossa strategicamente perfetta: il campionato ha abbastanza appeal da poter mettere in circolo ingenti quantità di denaro e vive in una situazione di economia oligarchica in cui pochi hanno tutto ed al resto del firmamento a volte non rimangono nemmeno le briciole. La federazione è inoltre del tutto aperta all’ingresso di un fondo di investimento e di terze parti(o TPO, Third Party Ownership) per poter pompare dall’esterno capitali freschi e sempre disponibili, scegliendo così di rianimare a piccole dosi l’agonizzante sistema piuttosto che cercare di dargli una nuova vita, su un modello magari più sostenibile. Legalizzare i fondi di investimento per la Spagna è un preciso piano di azione che garantirebbe la stessa libertà di azione che esiste in Portogallo, dove le TPO sono assolutamente legali e libere di agire a piacimento. A queste condizioni di cieca accondiscendenza, DSI trova così il modo di espandere il proprio raggio di azione in maniera esponenziale. Dapprima attraverso un’apparente sponsorizzazione, attraverso cui il marchio Doyen inizia a comparire in alcuni punti delle divise da gioco di squadre piccole come lo Sporting Gijon e il Getafe, ma anche realtà più grandi come l’Atletico Madrid che con DSI costituirà una sorta di Joint Venture che vedremo più avanti. Il fondo, dopo aver perpetrato il consolidato piano d’azione sui cartellini dei giocatori, inizia a fare un passo ben più grosso: finanzia gli acquisti a squadre schiacciate dai debiti che non si potrebbero permettere manovre di rilievo nel mercato, ottenendo in cambio la percentuale sulle future transazioni dei calciatori acquistati pari al prestito precedentemente elargito. Ne consegue un tourbillon di movimenti di mercato crescenti, perchè la logica di un fondo di investimento è quella di effettuare più transazioni possibili nell’ottica di incassare a getto continuo, per portare poi profitti creati all’interno del calcio al di fuori del sistema, finanziando magari quella pluralità di settori merceologici di cui si parlava in precedenza: un circolo vizioso attraverso il quale il prodotto calcio si trova impossibilitato a fare leva sui suoi stessi ricavi e necessita continuamente di attingere a risorse esterne. In questo senso è emblematico il caso del Siviglia, la cui sponsorizzazione di DSI risale formalmente al 2012, ma i cui contatti erano iniziati certamente prima dal momento che sette giocatori in rosa della stagione che inizia appunto nel 2012 sono controllati dalla stessa DSI.  Di quei sette giocatori, ben sei si muovono verso altri lidi alla fine della stagione con alcuni casi, come Negredo, in cui si verifica un’ulteriore transazione all’inizio della stagione successiva, cioè quella in corso. In questa masnada di giocatori ridotti ad asset finanziario da muovere in continuazione per creare ulteriore profitto, si possono creare veri e propri casi societari che senza le necessarie conoscenze vengono facilmente scambiati per modelli di gestione aziendale: Porto e Atletico Madrid ne sono l’esempio conclamato.

PORTO E ATLETICO, I FALSI MITI – Nel nostro calcio in cui un termine come plusvalenza è ormai diventato di uso e consumo quotidiano a sintomo di una ottimale gestione del parco giocatori, ci sono stati spesso indicati due modelli di gestione virtuosa: il Porto e l’Atletico Madrid.  In particolare è il club colchonero ad aver destato particolare clamore grazie ai risultati sportivi ottenuti nella scorsa stagione, che sono stati assolutamente meritati e a cui questa analisi non vuole togliere alcun credito: ciò su cui riflettere è come il club di Madrid sia riuscito ad allestire una rosa capace di arrivare a due minuti dal tetto d’Europa partendo da oltre 200 milioni di debiti verso le banche e circa 50 verso il proprio personale. La storia nel dettaglio è stata raccontata in maniera egregia dall’ottimo Alessandro Oliva, ma in estrema sintesi gli interventi sul mercato effettuati dall’Atletico nel corso degli ultimi quattro anni sono stati resi possibili solo grazie all’intervento dei fondi di investimento esterni ed in particolare grazie alla DSI che ne ha finanziato buona parte, generando valore tecnico in entrata e plusvalenze esagerate in uscita. Com’è stato possibile? In soldoni, si tratta di una vera e propria bolla speculativa che maschera le reali valutazioni dei giocatori a beneficio dei bilanci, lo stesso concetto che ha reso immensamente potente Jorge Mendes nel corso degli anni. Con un funzionamento assolutamente lineare: la TPO acquisisce una parte del cartellino e/o la percentuale pari al finanziamento erogato per il precedente acquisto e giacché incasserà una consistente fetta, alcuni giocatori che in una normale transazione tra due società genererebbero un dato valore vengono venduti a valore immensamente più alto gonfiando la plusvalenza. E’ il caso di Falcao, che sulla carta fu ceduto al Monaco per 60 milioni ma nella pratica ha portato nella casse dell’Atletico Madrid un terzo della cifra, giacchè una consistente parte è stata inglobata dalla DSI come percentuale sul finanziamento del 55% erogato per l’acquisto del colombiano un anno prima e un’altra parte è stata liquidata a Mendes, alleato DSI e operante in quel frangente nel doppio ruolo di agente di Falcao e consulente di mercato del Monaco. Il precedente club di Falcao, cioè il Porto, ha peraltro diversi giocatori sotto il controllo della stessa DSI, rendendo così intuibile che il fondo potrebbe aver trattato quasi interamente con sè stesso la prima transazione e facendo sorgere il dubbio che il passaggio di Falcao dal Portogallo alla Spagna sia avvenuto attraverso una partita di giro. Del resto i portoghesi sono ben inseriti nel meccanismo: di tante, tantissime valutazioni gonfiate che hanno portato gli ex Dragoes in giro per l’Europa, vale la pena citare il caso Mangala che da semisconosciuto al grande pubblico si ritrova ad essere un calciatore del Manchester City ad una cifra assolutamente spropositata (40 milioni) per il reale valore del calciatore: un chiaro esempio di bolla speculativa, con quasi la metà della cifra (18 milioni) finita nelle casse del DSI che con ogni probabilità ha portato questa cifra fuori dal settore calcio per impiegarla in uno dei suoi settori di interesse. Se vi siete infine chiesti il senso dell’affare che ha portato Marcos Rojo dallo Sporting Lisbona al Manchester United per 20 milioni di Euro, rileggetelo sotto la lente del sistema Doyen spiegato sopra giacchè il 75% della cifra è stata appannaggio del fondo di investimento. Una vicenda che scotta e che è finita in tribunale come spiegato da Pippo Russo, una delle pochissime voci che hanno sollevato analisi ed approfondimenti su questo affare quantomeno anomalo se visto dalla sola superficie del calciomercato.

LO SCENARIO ITALIANO – In questo scenario di assoluta speculazione finanziaria, l’Italia ha accettato l’ingresso delle TPO nel proprio calcio conoscendo perfettamente tutti i rischi del caso. In una realtà implosa su sè stessa soprattutto a causa del passo molto più lungo della gamba fatto in passato sugli introiti dei diritti televisivi, l’apporto di capitali esterni è diventata l’unica via d’uscita per cercare di evitare (o ritardare?) casi simili a quelli che sta vivendo il Parma in questi giorni. DSI ha stanziato, a margine del patto citato nel paragrafo sopra, 200 milioni così ripartiti: 50% a finanziare il calciomercato, 20% per necessità dei club (ad esempio la ristrutturazione dei debiti), 20% per l’acquisizione dei diritti di immagine dei calciatori e il restante 10% impiegato in operazioni di marketing. A sentire il CEO, il già citato Nelio Lucas, di rischi non ce ne sono: “Il modello di business principale della Doyen  sarà quello dell’assets based lending ed esso sarà applicato esclusivamente alle società di calcio, cioè il prestito di denaro a queste società correlato al potenziale aumento del valore del calciatore. Queste operazioni e quelle ad esse collegate dovranno essere valutate e considerate dalle società sportive nell’applicazione del fair play regulations della Uefa posto che Doyen opera direttamente e solo con le società di calcio, mai con i calciatori e/o con i loro agenti”. In buona sostanza, Doyen presta denaro a Società bisognose per le operazioni di mercato e la Società si impegna a restituirli entro un tot di tempo, girando intanto una parte dei proventi delle cessioni dei giocatori interessati al prestito: nè più nè meno, trattasi dello stesso identico modus operandi già importato nella Liga spagnola. Con il rischio però che le Società possano poi essere prese letteralmente per il collo: emblematico è il caso del Santos, che dalla DSI ricevette un prestito salvo poi sentirsi chiedere un tasso di interesse del 48% sulla restituzione quinquiennale: da 42 milioni di Reais brasiliani di prestito a 62 milioni di restituzione. Operazioni attraverso le quali le TPO e in questo caso DSI esercitano così una pressione economica e fiscale tale da rendere le Società impossibilitate al controllo del parco giocatori facendo in modo che in breve tempo si ritrovino incravattate a tal punto da dover dipendere quasi totalmente da questi soggetti esterni. Vietato pensare che lo scenario sia ancora modificabile perchè in embrione: DSI ha già fior di interessi in Italia. Ha una partnership attiva con il Milan  attraverso la quale si può tentare di spiegare per quale motivo Alessio Cerci sia finito nelle fila dei rossoneri contro la sua iniziale volontà, con tanto di diktat dell’Atletico Madrid: DSI detiene infatti i diritti di immagine dell’esterno ex Torino. Diritti di immagine che DSI detiene anche su Morata e che ha tentato di ottenere anche su Mauro Icardi finanziando l’offerta dell’Atletico Madrid della scorsa estate che l’Inter ha rimandato al mittente. E non è tutto: Felipe Anderson è un giocatore della scuderia Doyen a tutti gli effetti ed ora che vive un momento di grazia è facile prevedere a quali cifre si muoverà in futuro. Di tutto questo in Italia si parla ancora molto poco nonostante l’enorme portata dell’evento, come delineato nel nostro racconto, con il concreto rischio di ritrovarsi poi con il cerino acceso rifacendo lo stesso errore già commesso con la bolla dei diritti tv, i cui proventi calcolati sulla carta hanno portato ad un indebitamento ormai irreversibile con tutte le conseguenze del calcio svuotato e povero che vediamo poi transitare in stadi sempre più vetusti e sempre più vuoti. La Fifa sta per mettere in campo specifici provvedimenti contro le TPO con la sensazione che sia ormai troppo tardi per estirpare un sistema ormai ancorato alle solide radici del danaro frusciante, così un possibile giro di vite può trasformarsi in un avvitamento che si trasforma in incastro, dal quale uscire diventa pressochè impossibile. Con il pericolo concreto che, a carcassa ormai spolpata, gli unici soggetti che in questa storia pagheranno qualcosa saranno, come sempre, i tifosi. La Serie A ridottasi a raschiare il fondo, di investimento o del barile, rischia di aver svenduto al miglior offerente un valore inestimabile: la passione.