8 Febbraio 2016

EDITORIALE – Oltre le cifre, Rodrigo Palacio

Tra i pochissimi a uscire a testa alta dal Bentegodi dopo la sconcertante partita di domenica contro l’Hellas Verona c’è stato, ancora una volta, Rodrigo Palacio. Il puntero argentino non ha segnato ma ha giocato una partita monumentale, trascinando i compagni con l’esempio e la dedizione, senza risparmiarsi mai né in copertura, né in fase […]

Tra i pochissimi a uscire a testa alta dal Bentegodi dopo la sconcertante partita di domenica contro l’Hellas Verona c’è stato, ancora una volta, Rodrigo Palacio. Il puntero argentino non ha segnato ma ha giocato una partita monumentale, trascinando i compagni con l’esempio e la dedizione, senza risparmiarsi mai né in copertura, né in fase offensiva. Detto male, quando il gioco s’è fatto non duro ma durissimo, don Rodrigo è stato probabilmente l’unico a continuare a tirare fuori i cojones senza farsi coinvolgere nella spirale autodistruttiva in cui la squadra sembrava essere sprofondata dopo il gol di Ioniță.

Casualmente, la prestazione del Trenza è arrivata in un periodo in cui – oltre a essere sotto esame insieme con i compagni e l’allenatore per i risultati poco soddisfacenti – è stata pesantemente criticata la scelta della società di offrirgli un rinnovo, vista l’età. Beh, se c’è una cosa che la gara di Verona ha dimostrato, questa è proprio la totale idoneità del numero 8 albiceleste a vestire ancora la maglia del Biscione.

Per carità, è palese che il giocatore non è più quello di qualche anno fa e lo dimostrano non solo i numeri (936 minuti giocati su 2340, due soli gol e due assist) ma anche l’alto numero di errori  banali commessi, le letture sbagliate e le discutibili scelte, tutto frutto di una scarsa lucidità che la versione nerazzurra di Palacio non aveva mai mostrato neppure lo scorso anno, quando già il Trenza fece ben peggio rispetto allo standard espresso nelle sue due prime stagioni all’ombra della Madonnina pur concludendo in netta crescita. Tuttavia, tra il Chievo e l’Hellas, è riemersa con prepotenza l’importanza che don Rodrigo ha nel meccanismo nerazzurro: nessun altro, tolto forse Medel, ha la sua stessa abnegazione né – tantomeno – il suo carisma.

Sarebbe peraltro facile sostenere che Palacio meriti il rinnovo alla luce dell’impegno messo in campo negli ultimi tre anni a prescindere dal contesto, che talvolta è stato quasi imbarazzante (l’anno che avrebbe dovuto giocare con Milito, Cassano, Sneijder e ogni tanto Coutinho ha finito per duettare con Schelotto e Tommy Rocchi, per dire) o giustificare una sua permanenza in nerazzurro in virtù dei 50 gol fatti in tre anni – cogliendo l’occasione per ricordare pure che certe partite le ha letteralmente vinte da solo. In realtà l’argentino lo merita per quanto fa e per quanto dà adesso, tutt’ora, nonostante il rendimento sul campo non sia più spaventoso come due o tre anni fa.

 L’ex genoano s’è sempre schermito di fronte ai microfoni, ha sempre fatto presente che non era adatto a indossare la fascia di capitano e che è troppo silenzioso e riservato per essere un leader di spogliatoio: tutto giustissimo se non fosse che, osservando come guardano a lui parecchi suoi compagni, l’unico a pensarla così è proprio lui. Magari non alza la voce con chi sbaglia in spogliatoio o non prende da parte i giovani ogni due per tre per dare loro consigli ma da fuori è palese che Palacio è una guida per gli altri giocatori dell’Inter: non comanda con la voce ma con l’esempio. Spesso e volentieri, quando i compagni non sanno cosa fare in campo (e ultimamente non è cosa che capiti di rado), la scelta è dare palla al numero otto: un po’ perché è l’unico che anche in fase di non possesso non sta mai fermo, un po’ perché cerca in continuazione di tenere il suo cervello sempre attivo e funzionante.

 Il piccolo dramma di Rodrigo (che poi è anche quello che spiega i suoi recenti affanni) è che il suo fisico non risponde più come prima agli stimoli neuronali, per cui il Trenza è continuamente frustrato da una “gabbia di carne” che gli impedisce di fare quel che vorrebbe alla velocità che vorrebbe, nel modo che vorrebbe e con gli esiti che vorrebbe. Lo stesso fisico che gli ha consentito di avere una carriera decisamente lunga per una punta di sacrificio come lui ora lo tradisce, facendogli mancare la gamba quando gli servirebbe di più o togliendo ossigeno al cervello nel momento di una scelta cruciale perché la priorità è conservare la corsa.

Gente con meno tempra di lui si sarebbe lasciata scivolare nella rabbia e nella frustrazione già dopo l’errore fatto al 91’ contro l’Atalanta di qualche giornata fa. Lui no: ha risposto presente sempre senza mugugni nonostante sia finito spesso e volentieri in panchina (il che è una situazione sostanzialmente nuova per lui, abituato da almeno un decennio a essere titolare inamovibile) e ha raddoppiato impegno e sudore dopo ogni errore. E sarebbe facile anche qui abbandonarsi alla retorica in stile “il giocatore che ogni allenatore vorrebbe avere, quello che lavora tanto e rompe poco le scatole”. Piuttosto che lanciarci in slanci degni del miglior Curzi preferisco pormi una domanda: domenica scorsa in quanti, con sulla coscienza un errore grave sotto porta commesso al 7’, avrebbero finito da migliori in campo? E non solo dell’Inter, intendo quanti altri calciatori. Probabilmente pochi.

La verità è che avrà pure segnato un solo gol in campionato – tra l’altro di una discreta bruttezza – ma Palacio è ancora fondamentale in quest’Inter. Perché rimane un esempio quasi unico di dedizione in campo, perché è ormai l’unico tramite tra i vecchi senatori del post Triplete e i nuovi punti fermi dello spogliatoio, perché è senza dubbio il più grande professionista attualmente in rosa, nonché il giocatore più esperto e probabilmente il più carismatico.

Il rendimento non sarà più quello dei primi anni, ormai è chiaro. Ma se la trasferta veronese ci ha insegnato qualcosa è che la Beneamata ha più bisogno di don Rodrigo Palacio di quanto lui ne abbia dell’Inter (anche se spero che non se ne accorga). Ed è per questo che il suo rinnovo è imprescindibile.