23 Novembre 2011

Zarate, bambino del passato

Che il calcio abbia subito delle rivoluzioni negli ultimi 20 anni è cosa evidente. Quando guardi una partita degli anni ’80 la prima cosa che noti è che da parte dei calciatori c’era totale reverenza nei confronti di un atteggiamento di tranquillità, di calma, quasi olimpica. In 90 minuti le accelerazioni erano episodi isolati, per il resto il tatticismo e l’approccio alla gara erano quasi univoci: la palla girava a pochi chilometri all’ora, prediligendo la manovra orizzontale e affidando solo al grande campione la “giocata”. Dal suo principio fino alle fine degli anni ottanta, più o meno il calcio è stato questo. Qualcosa iniziò a cambiare in Italia quando Sacchi e Zeman, poeti del calcio accomunati anche dal non aver mai giocato a grandi livelli, si affacciarono contemporaneamente alla ribalta, con due squadre dagli stessi colori sociali ma dal prestigio diverso: Milan e Foggia. Al di là dei risultati ottenuti, i due hanno avuto un impatto devastante. Il calcio divenne quasi un altro sport, con una nuova concezione del gioco, fatto di corsa, di velocità, di tattica, “previsione” di gioco, di movimento. A farne le spese il singolo, a guadagnarne la squadra intera, il gruppo.

CRISI DA FENOMENO – La parola “fenomeno” significa apparizione: quale dimostrazione può essere migliore di una grande giocata risolutrice? Nessuna, e su questo siamo d’accordo. Ma proviamo a contestualizzare il tutto: essere fenomeni del calcio 30-40 anni fa significava semplicemente tirare fuori il coniglio dal cilindro al momento giusto, nell’atmosfera di pace generale di una partita; esserlo adesso è qualcosa di estremamente diverso. In campo ora c’è quasi la guerra, si fa a gara a chi corre di più, ci si basa su un movimento continuo, inteso sia come percorso e chilometraggio che il singolo compie nell’arco di un’intera partita sia come armonia dinamica di una compagine. Prevale la tattica, prevale l’attenzione all’avversario, ai suoi movimenti e si può dire che ormai il senso di appartenenza al gruppo si misura nel comprendere tutti insieme cosa è giusto fare  in quella determinata fase di gioco. Insomma, qualcosa di molto più complesso: di riflesso la figura del campione risente di tale cambiamenti.

SEMPRE AL PASSO – Ne è una prova che mentre di fenomeni in passato ce ne sono stati tanti (chi più, chi meno ovviamente), ora si fa fatica a riconoscerne. Perché ora il migliore, oltre a essere il più forte tecnicamente, è soprattutto colui che sa stare al passo coi tempi meglio degli altri. Non vogliamo scomodare i vari Messi, Cristiano Ronaldo, Zidane, il Ronaldo brasiliano, il Kakà di qualche anno fa e compagnia bella, ma non possiamo non ammettere che se questi grandissimi hanno sfondato il muro della gloria è anche perché sono e sono stati dei perfetti interpreti del calcio di oggi. Stanno davanti a tutti per una questione di testa e adattabilità, di mentalità in campo. Chi di voi, nonostante siano tecnicamente indiscutibili, paragonerebbe Zarate a Messi? Aspetterei all’infinito se potessi, ma so già che nessuno si farebbe avanti. E’ proprio su di lui che vogliamo porre la nostra attenzione, perché in questa fase di ricambio generazionale, la società nerazzurra non deve commettere l’errore di farsi abbagliare da apparizioni che poco hanno a che fare (almeno per ora) con i fenomeni.

UN BAMBINO INNAMORATO – Mauro Zarate era un perfetto sconosciuto fino a 3 anni fa. Proveniente da Buenos Aires, è il quintogenito di una ricca famiglia di calciatori: giocatori di professione erano infatti il nonno Juvenal, il padre Sergio (che militò nell’Indipendiente), e i fratelli Sergio, Ariel e Rolando. Mauro il calcio ce l’ha nel sangue, e anche se non ne abbiamo conferma documentata, ce lo immaginiamo da bambino, piccolo di statura e con quella faccia strafottente, correre appresso al pallone nelle strade soleggiate e rumorose della capitale argentina, tra le grida dei compagni. Quando si gioca in cortile vuoi sempre essere il più forte, e se capisci di esserlo, fai di tutto per confermarlo sempre. Il piccolo Zarate deve averlo capito molto presto, perché a giudicare da come ancora oggi è attaccato al pallone, di ragazzini così spregiudicati nel campetto del quartiere non ce n’erano poi tanti. Dell’Argentina gli è rimasto questo, l’amore sviscerato per la sfera, che si manifesta in un desiderio di possesso e sfocia, spesso, nell’egocentrismo. Da bambini in fondo siamo tutti così.

E LA CRESCITA? – Il problema è che Zarate non è più un bambino. Di anni ne ha 24 ormai, e alla sua età altri giocatori sicuramente hanno un curriculum diverso. Ma non è tanto questo ciò che conta, perché se giochi nel Velez, nell’Al-Sadd o nel Birmingham è difficile che tu riesca a vincere qualcosa. Il curriculum di cui noi parliamo è fatto di esperienze, di maturazione, di cambiamento. Perché è innegabile che ovunque si possa imparare qualcosa e che ovunque possa iniziare l’evoluzione. In realtà non è che ci sia un vero e proprio inizio in un processo del genere: sarebbe come dire che il bruco da un momento all’altro diventa farfalla. La strada è sempre lunga, ed è iniziata proprio in qualche viottolo del quartiere di Haedo. Il problema è che a un certo punto c’è stata una crepa, e il cammino mentale si è interrotto.

SPERANZA – Ieri a tratti abbiamo avuto l’impressione che sia sceso in campo il bambino di Buenos Aires, non il ventiquattrenne calciatore argentino, affermato, strapagato (ricordiamo i 20 milioni di riscatto che Lotito ha tirato fuori due anni fa), che gioca nella squadra campione del mondo. Abbiamo sicuramente pensato che il livello della sua lotta col mondo sia ancora quella del fanciullesco “prendo la palla e vediamo chi è più forte”, cosa che poteva essere accettabile fino a 30 anni fa. Ora il mister sta provando a inculcargli quella mentalità di sacrificio che fa diventare fenomeni i campioni dell’oggi. Noi possiamo solo incrociare le dita, perché nessun interista si accontenta di immaginarlo bimbo nelle strade di Haedo, o come fenomeno degli anni ’70…