25 Aprile 2020

Zenga: “Mio padre tifava Juve, io per l’Inter facevo l’ultrà. Ma nell’87’ era fatta con il Napoli”

Lunghissima intervista dell'ex portiere e bandiera nerazzurra

Come sempre molto schietto e diretto, questa mattina è stata pubblicata sulle pagine del settimanale Sportweek un’intervista concessa da Walter Zenga. L’ex portiere, oggi allenatore del Cagliari, ha ripercorso la carriera sin dai pulcini dell’Inter, tra i colori nerazzurri che lo hanno accompagnato per tutta la vita. Proprio dall’Inter sono partiti i ricordi dell’Uomo Ragno: “Parlare dei nerazzurri? Non mi stancherà mai mai. Ma prima c’è la Macallesi, perché io sono uno del Viale: Viale Ungheria è la mia infanzia, il mio nucleo. Quando nasci hai sempre un indirizzo dentro e il Viale ti indirizza. Nel libro Zenga e i suoi fratelli si legge che io sono l’unico grazie al quale il Viale, per chi abita lì, non è un handicap ma una bandiera da sbatterti sotto il naso: un po’ mi sono commosso”.

È Italo Galbiati a portarla dalla Macallesi all’Inter.
“E io ero già tifoso da tre anni, marzo ’66: mio papà era juventino, però mi accompagnò a San Siro a vedere Inter-Brescia 7-0. E provi a immaginare cosa mi restò impresso, oltre a tutti quei gol? Il portiere avversario, Brotto: aveva una maglia nera con una enorme V bianca”.

Tifoso dell’Inter, poi pulcino e poi?
“Poi raccattapalle: mille lire a partita, sceglievo sempre la porta opposta a quella dove si entrava, così potevo attraversare tutto il campo. E poi ultrà, quando la curva dell’Inter era sopra la bandierina del corner: prendevo il 24 da Viale Ungheria, poi il filobus 90 o 91 fino a Piazzale Lotto. Ero più da coreografie che da risse, ma quando quelli dell’anello sopra andavano a rubare gli striscioni avversari facevo il tifo per loro”.

E dopo?
“Per due anni, dai 17 ai 18, anche factotum in sede, Piazza Castello. Aiutavo l’Ileana, per me una seconda mamma più che una segretaria: smistavo la posta, portavo i cappuccini negli uffici.Sessantamila lire al mese più diecimila ogni partita vinta con la Primavera, i primi jeans Fiorucci che mi comprai ne costarono 5.000: entrare in quel negozio in centro a Milano era come diventare grande. Dunque mattina in sede, pranzo con i buoni pasto, autobus fino a Piazzale Lotto, pullman per Appiano Gentile e la sera scuola privata in Piazzale Cadorna. Poi svenivo”.

Per una passione si sviene anche, in effetti. E poi quando si diventa allenatore si mette nel contratto la «clausola Inter»: rescissione consentita in caso di chiamata nerazzurra.
“Leggenda: mai esistita. Lo dicevo per amore della squadra che è stata 23 anni della mia vita”.

Eppure lei ha rischiato di non vincere nulla, con l’Inter.
“Giugno ’87, era tutto fatto con il Napoli. In vacanza a Lampedusa, passavo le giornate a parlare con Moggi da una cabina telefonica. La Gazzetta di quei giorni ce l’ho ancora: ‘Zenga al Napoli, Giuliani all’Inter’. Poi la cosa salta, ma per me è un inferno: la Nord scrive ‘Dieci contano, uno non conta più’,per 3-4 mesi ogni tiro è un gol, compreso quello di Aaltonen del Turun Palloseura, non so se mi spiego. A metà dicembre telefono a Ferlaino e Moggi, che ci speravano ancora, e gli dico: ‘Basta, non ce la faccio più’. E anche se Pellegrini faceva lo gnorri come al solito, con Cesare Viganò e Franco Maggiorelli vado a firmare il rinnovo, il giorno prima del derby. Peccato che lo perdiamo con autogol di Riccardo Ferri: per evitarlo provo una sforbiciata sulla linea di porta”.

Se ne sarebbe andato sette anni dopo, a Genova.
“Ma nessuno ha mai raccontato, neanche io prima di oggi, che sarei potuto tornare: rimesso a posto il crociato che mi ero rotto alla Samp, dovevo fare il secondo di Pagliuca per un anno, prima di entrare in società. Ne parla i prima con Moratti eMazzola e poi con Gianluca, una sera a cena alla ‘Briciola’: lui non aveva problemi, ma non se ne fece nulla.Andai aPadova e negli Stati Uniti, poi all’Inter tornai davvero – marketing e uomo immagine in tv –ma solo per pochi mesi. Quel ruolo lo sentivo stretto, non ne vidi il futuro, e feci una cazzata. È sempre sbagliato avere dei pregiudizi a priori, come quelli che in questi giorni di calcio azzerato dal coronavirus sento dire: ‘Non si può e non si deve giocare’. Non è più giusto dire: ‘Vediamo cosa succede, ma noi ci siamo’?”.

Beh, lei è di parte: ha ritrovato il calcio italiano e l’ha ‘perso’ dopo quattro allenamenti…
“Io non ho perso nulla: sono tornato inItalia e sarò il tecnico del Cagliari. Ho già preparato tutto:dagli allenamenti distanziati alla gestione delle partite in luglio o agosto. Ho allenato sei anni in Medio Oriente, lì si gioca ad agosto a 45gradi: saprò come si fa, no?”.

Chiudiamo con l’Inter: più difficile perdonare Pellegrini per avergliela tolta o Sacchi per averle tolto la Nazionale?
“Le dico solo che Arrigo non molto tempo fa ha perorato la mia causa per una nazionale: allora fece una scelta che oggi, da allenatore, capisco e condivido. E poi oggi per “merito” suo sono ancora l’UomoRagno, anche se quel soprannome me lo diedi da solo: vale più quello di GianniBrera, Deltaplano.Però il giornalista che mi disse la cosa più bella fu Franco Rossi del Giorno: ‘Non so se sei il fenomeno degli scarsi o lo scarso dei fenomeni'”.

Dunque ce l’ha di più con Pellegrini.
“Di sicuro più con lui che con Ottavio Bianchi, che pure non mi disse una parola: dopo 23 anni di Inter meritavo un rispetto diverso nel dirmi addio”.

Azzardiamo: la parata più bella della sua carriera?
“La mia parata più bella è una partita, l’ultima con l’Inter, finale di Coppa Uefa con il Salisburgo:io lo sapevo che era l’ultima, doveva essere il finale perfetto del mio film.Imbattuto, da vincitore, la gente che si spella le mani per il repertorio completo di un portiere: tiri e uscite di ogni tipo, non sbagliai nulla”.

E l’errore più clamoroso?
“Per un portiere l’errore è una ‘necessità’. Ho rivisto da poco Italia-Germania dell’82: per dire, nel secondo tempo il grande Dino Zoff fa un paio di uscite a vuoto.La differenza la fa il ‘dopo errore’, come il ‘dopo parata’: mai soffrire, mai esaltarsi. L’ho capito a 18 anni, Salernitana-Pisa:faccio due papere pazzesche, mi metto a piangere e lascio il campo, non ci fu verso di farmi rientrare”.

Il portiere più simile a Zenga che ha visto in questi anni?
“Sirigu lo chiamavano Walterino ,ma semmai vedo un modo di parare più simile al mio in Perin. Però onestamente non mi sono mai detto: “Toh, questo è uguale a te”. I portieri sono tutti diversi: non è solo un modo di dire”.

Anche gli allenatori?
“Certo, infatti ho imparato molto da almeno sei dei miei: Sonetti, Radice, Vicini, Trapattoni, Bagnoli e Eriksson. E li scriva tutti, eh?”.

E quello con cui ha litigato di più?
“L’avversario, Valdinoci: vinse con l’Atalanta a San Siro, mi fece il gesto dell’ombrello dicendomi di mettermi lo scudetto in quel posto, l’ho aspettato nel tunnel. Ma chiprovò a prendermi per i capelli fu Sonetti. Arrivo tardi all’allenamento e per punizione inizia a tirarmi legnate da dieci metri: mifa sempre gol perché ero ancora rimbambito, si volta un attimo e lo mando a quel paese, peccato che fa in tempo a girarsi. E io a scappare, ma mi aveva quasi preso”.

L’avversario?
“Carnevale quando era all’Udinese: ricordo la scena, ma non il perché. E comunque pensi che è uno dei miei migliori amici”.

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