2 Novembre 2019

Accadde Oggi – 2 novembre 1952, una saetta di Benito “Veleno” Lorenzi decide il derby nei minuti finali: genio e follia di un attaccante controcorrente

Numerosi gli episodi controversi che contrassegnarono la carriera di Lorenzi

Fortuna che ci ha pensato la madre a soprannominarlo Veleno: altrimenti avrebbe certamente provveduto qualcun altro, sarebbero intervenuti di sicuro i giornalisti con la loro stucchevole tendenza a soprannominare sempre tutto e tutti, e a fare di ogni soprannome un dogma. Ma Benito Lorenzi, un carattere velenoso, ce l’aveva davvero: sin da piccolo. Ecco perché la madre (Ida Lorenzi) lo ribattezzò così: perché era un casinista, argento vivo addosso. E lasciamo stare il perché di quel nome di battesimo, ossia Benito: gli fu affibbiato – inizialmente come scherzo – da suo nonno, cui era stata chiusa la panetteria dal nascente regime fascista, e che quindi per ripicca, o per sfottò, o per qualcosa del genere, decise di chiamare il nipote col nome di Mussolini.

L’antefatto promette già bene, e il resto è ancora meglio: che poi non è nemmeno chiaro se gli episodi di cui Lorenzi si rese protagonista in carriera fossero spontanei oppure funzionali al mantenimento del proprio nomignolo (se, cioè, il personaggio avesse preso il posto della persona, e se quindi la persona si comportasse in funzione del personaggio). Perché Benito Lorenzi – prima ancora che giocatore e attaccante dell’Inter per 11 lunghi anni, tra il 1947 e il 1958 – è anzitutto quello che all’esordio, con l’Inter, si fece buttare fuori, per dirne una. E’ quello che, nei Mondiali del ’54, tirò un calcione a Viana, arbitro brasiliano, durante la partita contro la Nazionale ospitante della Svizzera. La fama di Lorenzi si estende, poi, sino a inosservate strizzate ai testicoli degli avversari (roba che oggi, tra il pur malfunzionante VAR e la prova tv, ti squalificano per sei mesi) e a plateali provocazioni nei confronti degli avversari con l’insuperabile arma del vernacolo fiorentino.

Benito Lorenzi era anzitutto questo. Poi, certo, era anche l’uomo che ti decideva i derby a quattro minuti dalla fine con una delle sue fiammate, con uno dei suoi squilli. Qualcosa di analogo, per fare un esempio, successe il 2 novembre 1952, quando Lorenzi – all’86esimo minuto – salì in cattedra e con un gran tiro da fuori area batté Lorenzo Buffon, leggendario portiere del calcio italiano, nonché cugino di secondo grado del nonno di Gianluigi Buffon. Fu, quella, una partita abbastanza bloccata: specie nel primo tempo, di cui le cronache dell’epoca non ci offrono grandi spunti. Milan in leggero predominio territoriale, ma poca cosa. Per contro, fu il secondo tempo ad essere decisamente più divertente: da registrare un salvataggio sulla linea di Giovannini (difensore dell’Inter) su conclusione di Nordahl, poi una traversa di Skoglund per l’Inter, e clamoroso errore di Buzzin in seconda battuta (mandò alto a pochi passi dalla porta). Infine, come detto, lo squillo di Veleno: saetta da fuori, palla alle spalle di Buffon e contesa chiusa: 0-1, il derby finì così.

Il dato interessante è che non fu, il suo, un acuto estemporaneo, un piccolo momento di grande gloria tipico di quei giocatori avvezzi a rendersi famosi più per le bravate dentro e fuori dal campo che per il rendimento in carriera: Lorenzi, nell’arco del suo periodo d’attività, raggiunse quasi ogni anno la cosiddetta doppia cifra, e in generale era uno che i gol li faceva: 143 in 314 partite con l’Inter, numeri leggermente – eufemismo – migliori di certi giocatori teppisti di oggi, di cui periodicamente ci si trova a discutere nei bar italiani per l’ultima bravata e mai per l’ultimo gol. I quali ne combineranno di tutti i colori – motorini buttati a mare, maglie gettate via o presunte risse con gli allenatori – ma non potranno mai dire le cose che Lorenzi poté raccontare della sua carriera.

Non potranno mai raccontare – ad esempio – di aver colpito un Nyers dopo un gol sbagliato da quest’ultimo contro la Fiorentina, venendo rincorsi dallo stesso giocatore una volta che questo ebbe poi fatto gol, in un secondo momento. Non potranno mai raccontare di aver posizionato un limone (appositamente consegnatogli da un massaggiatore in panchina, e non chiedeteci cosa ci facesse un massaggiatore in panchina con un limone in mano) sul dischetto del rigore per far sbagliare il giocatore del Milan intento a battere la massima punizione in un derby del 1957 (il malcapitato tiratore fu un certo Cucchiaroni, che calciò completamente fuori bersaglio), ovviamente scappando negli spogliatoi per evitare il linciaggio da parte dei tifosi avversari, una volta che fu chiaro cos’avesse fatto. Non potranno mai raccontarlo semplicemente perché a quell’epoca era tutto più vero: gli uomini erano più autentici, le bravate – se fatte – andavano fatte bene. E Benito Lorenzi, diciamo così, avrebbe ancora qualcosa da insegnare a tanti casinisti d’oggi.

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